Wednesday, December 11, 2024

Cristina Campo- seconda parte prima lassa di Diario bizantino. Quinto appuntamento.

Di Marina Agostinacchio

II

Uno a uno vengono accesi i volti
alle radici millenarie
della selva d’icone,
per fare di giorno notte,
neve e stelle,
per far della tenebra rose
-più che rugiada trasparenti rose.
E la fiamma sboccia come il bacio all’icona
e il bacio sboccia come la rosa all’icona,
culmini della linfa della terra,
culmini del respiro dell’amore.
Ma la Luna qui
sboccia nel Sole,
la Luna partorisce il Sole.

Percorre in tutta la lassa, una tensione, una ricerca di un mondo capace di svelare la propria natura.  Un mondo fatto di purezza a immagine dell’altro mondo, tanto invocato nelle lasse precedenti di “Diario bizantino”. Cristina Campo vede nel culto ortodosso la possibilità di tale rivelazione, sente la chiusura di un cerchio esistenziale, fatto di ricerca e di ritrovamento: il volto vero del mondo e la propria vita.
La scrittura, allora, si pone al centro di questo legame, la scrittura deve essere “poesia liturgica” e il rito diviene quindi viatico per “entrare” nella dimensione auspicata, per potere cogliere la limpidezza e la trasparenza di questa totalità di tutte le cose create ed esistenti in cui siamo immersi.

“Liturgia è celebrazione dei divini misteri.” “Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile”, dice la Campo.
Il rito della venerazione dell’Icona – il motivo dominante della lassa – è perciò l’immagine stratificata di simboli, dei possibili significati capaci di moltiplicarsi a mano a mano ci si avvicina alla purezza.
A tergo di questa premessa, vorrei dare spazio, per questo nuovo appuntamento con il lettore, alla sezione II di “Diario bizantino”, di Cristina Campo, presentando al lettore una delle immagini con cui vengono denominate poeticamente nella liturgia bizantina le icone: “Una finestra aperta sul Cielo”.

Se leggiamo con attenzione la lassa proposta, pare essere condotti, per mano della poetessa, in uno spazio verticalizzante; ciò non solo per i riferimenti concreti alla luna e al sole che appaiono in fondo alla sezione poetica riportata, ma anche per quanto di sotteso respira nelle parole scelte da Cristina.
Così ogni immagine suggerita dalla Campo ci apre a un atto di profonda meditazione, di apparizione di un mistero – l’Icona non è qui intesa come opera d’arte ma mezzo che porta “a contemplazione del Mistero”.
Pertanto, l’Icona non riveste solo un carattere estetico di pregio, in quanto risulta pregna di un significato teologico. Per l’Oriente cristiano l’arte si fonde con la teologia e la liturgia, poiché “l’annuncio del Cristo non fu lasciato solo alla testimonianza scritta, ma anche a quella dipinta. Una teologia ed una preghiera per immagini”: filosofia della trascendenza dove il dato sensibile, la materialità di cui siamo fatti, verticalizza all’Invisibile, in quanto Esso si manifesta, comunica con noi, proprio nell’immagine.
Così, nell’arte iconografica “il paesaggio appena accennato, le figure stilizzate in una immobilità ieratica, le proporzioni spesso alterate ed i colori mai fini a se stessi” seguono il linguaggio del simbolo teologico.
La pittura è una forma d’arte, ma anche la manifestazione della propria fede vissuta con passione e interiorità. È un modo per avvicinarsi al Mistero, immedesimandosi con la raffigurazione dipinta: Gesù, la Vergine, i Santi.

Dicevo della presenza del Mistero dell’Icona che può essere solo percepito cercando di entrare nei significati dei dipinti su tavola che richiamano alla Vergine Maria il cui riferimento è dato negli ultimi versi dalla Luna che sboccia nel Sole, Luna che partorisce il Sole.
Come un atto magico, la presenza dell’Infinito, percepito nell’Icona, fa sì che l’uomo possa entrare per immersione in Esso. Si tratta di un’immersione totale di cui da bambini si fa già esperienza nel rito battesimale bizantino.
Vorrei insistere ancora sui versi relativi all’immagine del Sole, della Luna, (Ma la Luna qui / sboccia nel Sole, / la Luna partorisce il Sole).
Qui si è indotti ad individuare, (che siano Icone riferite a determinati momenti liturgici dell’anno: SS. Trinità, Feste della Teofania, Trasfigurazione, Discesa dello Spirito Santo; Icone di Cristo, Pantocrator, Feste del Signore; Icone della Madre di Dio; Icone dei Santi), la predilezione della poetessa per le immagini della Madre di Dio in quanto Luna che partorisce il Sole.

Sposto ora l’attenzione del lettore sui primi tre versi della lassa: alle radici millenarie/della selva d’icone; qui senza dubbio la Campo fa riferimento alla tradizione della Icona, alle immagini sacre, risalenti al IV secolo, quando la chiesa orientale era ancora unita a quella occidentale.
Al verso quattro e cinque — per fare di giorno notte, / neve e stelle…— la poetessa ci offre un’immagine, nelle sue forme e colori — il giorno / la neve — colta sia attraverso i nostri occhi fisici, che attraverso uno sguardo interiore; essa è spalancata sul mistero per entrare in piena comunione con l’inintelligibile.
Se dunque forme e colori rappresentano quanto l’occhio umano vede realisticamente, l’ingresso a quello che definiamo Mistero è rappresentazione del nascosto, la notte, appunto, illuminata dalle stelle, come da quella percezione del vero che sottende le linee compositive dell’Icona.
Le Icone, nelle funzioni liturgiche a cui si riferisce Cristina Campo, sono quindi un mezzo per fare emergere la pienezza, l’essenza dal profilo di ciò che esse stesse rappresentano; la parola, allora, deve sapere dire con estrema attenzione e precisione con limpidezza “e bellezza abbacinante”. Ecco allora l’immagine delle rose cui fa ricorso la poetessa nei versi succitati.

Ma il riferimento alla tenebra è anche un riferimento a quello che la Campo definì disordine liturgico (rimando al suo malessere, “un terribile male, come tutte le cose perfettamente belle quando si sia nel disordine e nella tenebra”, per un allontanamento della chiesa, dal Concilio Vaticano secondo ai riti che le appartenevano).
In un “mondo divenuto aliturgico”, un mondo che “ha crocifisso la bellezza e martirizzato il simbolo”, era necessario adoperarsi per una scrittura poetica che prendeva a modello la liturgia (“Nata da un ‘desiderio di circondare la divinità di immagini, quanto possibile ad essa somiglianti, la liturgia innesca un gioco di corrispondenze e di mediazioni tra terra e cielo”).

L’impegno etico prefissato dalla Campo si poneva con un’urgenza a livello di parola che doveva dire, e di vita, così come il rito, il mistero divino nella suo farsi celebrazione. “Liturgia – come poesia – è splendore
gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile.”

Portiamo ora lo sguardo ai versi otto/nove:

E la fiamma sboccia come il bacio all’icona
e il bacio sboccia come la rosa all’icona

Questo bacio all’icona, infiamma d’amore, si adorna di una bellezza folgorante, è rosa che esplode, rivelatrice della folgorazione dell’Essere supremo nelle sue manifestazioni plurime.
«Gli splendori del rito: le fiamme, gli incensi, le tragiche vesti, la maestà dei moti e

dei volti, il rubato di canti, passi, parole, silenzi, tutto quel vivido, fulgido, ritmico cosmo

simbolico che senza tregua accenna, allude, rimanda a un suo doppio celeste, del quale

non è che l’ombra stampata sulla terra» … Beati folli dal cuore in fiamme” (Cristina Campo-“Racconti di un pellegrino russo”).

La fiamma per il mondo “che è dietro quello vero”, fiorisce cosicché

il bacio sboccia come la rosa all’icona.

Cosa vuole indicarci la Campo con l’espressione di un bacio assimilato a una rosa che esplode in tutta la sua bellezza al solo accostarsi all’icona?
Nei riti bizantini, il pellegrino, di fronte all’immagine di un Santo, degli Angeli, della Vergine, di Dio, avverte un senso di inadeguatezza; il suo bacio testimonia lo spirito di semplicità e di unicità del suo porsi dinnanzi a questo evento con sentimento di devozione. Il suo è un atto di venerazione al cospetto del Mistero percepito.

Infine, ai versi dieci/undici:

culmini della linfa della terra,
culmini del respiro dell’amore

scopriamo che la lassa si connota di un atto celebrativo che è un invito all’adesione al rito dell’Icona, in un crescendo evocativo di altri “canti” che riecheggiano nella memoria poeti che hanno presentato la grandezza del Mistero attraverso la scelta di una parola, fine, eletta.

Ora la terra, imbevuta di spirito vitale, allorché travolta, con il bacio all’Icona, da passione verticalizzante, è raggiunta nella sua sommità, nel punto estremo di elezione, là dove soffia Amore.

Galleria

Marina Agostinacchio
Marina Agostinacchio
Nel 1998 e nel 2007, Marina Agostinacchio è tra i vincitori del concorso nazionale di poesia “Premio Rabelais”. Nel 2006 è tra i finalisti del Premio “Tra Secchia e Panaro”. Nel 2002 ha ottenuto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesie Porticati, nel 2009 la raccolta Azzurro, il Melograno, nel 2012 Lo sguardo, la gioia, nel 2014 Tra ponte e selciato. Nel 2021, Marina Agostinacchio ha pubblicato i volumi bilingue di poesie "Trittico Berlinese", 2021, e "In the Islands of the Boughs", 2023.

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