di Sandra Fiore
Vasco Rossi la voleva spericolata, la maggior parte di noi invece libera dalle patologie che affliggono l’esistenza umana. Alla scienza e alla medicina chiediamo cure sempre risolutive e immediate, dimenticando che ammalarsi fa parte della nostra evoluzione e che la ricerca ha bisogno di tempo, finanziamenti e di poter esprimere incertezze. Ne parliamo con Andrea Grignolio ricercatore del Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca (CID-Ethics) del Cnr e divulgatore scientifico
Nell’Occidente ipertecnologico, la malattia, il decadimento fisico e la morte sono diventati una sorta di tabù nel mainstream giovanilistico, che ci vuole in forma, operativi e felici.
Medico curante
Ma si può sperare di vivere senza ammalarsi mai? C’è un limite alla nostra vita biologica?
Ne parliamo con Andrea Grignolio ricercatore del Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca (CID-Ethics) del Consiglio nazionale delle ricerche e divulgatore scientifico. “Dal punto di vista evolutivo noi non siamo stati selezionati per essere privi di malattie, eppure, nella percezione comune, quando siamo affetti da un malessere, da un semplice dolore alla schiena alle affezioni più gravi, quali cancro o patologie neurodegenerative, ci chiediamo sempre il perché, come mai tali malattie sono così frequenti”, spiega il ricercatore. “La risposta è che l’evoluzione non ha agito sulla loro eliminazione, ma ha privilegiato la fitness, cioè il successo riproduttivo dell’essere umano. In questa chiave di lettura rovesciata trova posto il concetto di trade-off, ovvero lo scambio o il baratto: per ogni mutazione, aggiustamento o adattamento di un organo, di una parte del corpo, di attitudini cognitive comportamentali, l’azione selettiva avvantaggia una parte e ne svantaggia un’altra: abbiamo una massa cerebrale molto sviluppata e siamo bipedi, ma il prezzo da pagare sono le complicazioni del parto e i dolori alla schiena”.
Maggiore igiene e progressi della medicina hanno debellato alcuni morbi infettivi, l’aspettativa di vita si è allungata. Ma nel contempo sono aumentate le malattie cronico-degenerative, per esempio il cancro e le patologie neurodegenerative. “Molte di quest’ultime subentrano dopo che abbiamo assolto il compito riproduttivo, come accade per esempio per la Corea Huntington, che in genere insorge dopo i 35 anni. Un’ulteriore indicazione che le patologie della maturità, oggi maggioritarie, non erano state previste, né dunque eliminate, dall’evoluzione”, continua Grignolio. “Per diverse malattie, tuttavia, la medicina rigenerativa sta facendo passi da gigante: pensiamo all’utilizzo delle staminali per riparare cellule e tessuti. Ma anche con le terapie avanzate genetiche e cellulari i risultati sono evidenti: ogni anno guadagniamo spazio nella lotta al cancro e riusciamo ad allungare la vita media dei pazienti. Pertanto, trovo ragionevole chiedersi se riusciremo a superare queste battaglie”.
L’idea di eliminare tutte le malattie è però “poco probabile”, secondo il ricercatore. “Da 150 anni a questa parte tentiamo di capire quali siano i limiti biologici umani, stabilendo un limite alle curve di mortalità. Per molto tempo abbiamo pensato che la soglia fosse 100 anni, oggi superata e in via di estensione. Dai primi tentativi di calcolo di Benjamin Gompertz, matematico britannico attivo nella metà dell’Ottocento, fino ai giorni nostri siamo dominati da due principali scuole di pensiero: la prima ritiene che questo limite aumenti nel corso degli anni, l’altra sostiene che esso sia più o meno prestabilito o che vi sia un’età oltre la quale non possiamo andare. Vedendo i dati sinora disponibili, immagino che continueremo ad allungare gradualmente la vita media: attualmente ogni anno guadagniamo tre mesi di aspettativa media, un aumento che naturalmente nel tempo si assottiglierà via via. Non siamo eterni, non possiamo vivere, poniamo, mille anni”.
Se la malattia fa parte della nostra natura, come correggere la percezione di una scienza miracolistica, dispensatrice di soluzioni immediate per debellare le nostre affezioni? “Va assolutamente sfatato il mito della scienza come un jukebox che elargisce rimedi su richiesta. La ricerca ha bisogno di tre elementi chiave: tempo, finanziamenti ingenti – non solo durante i periodi pandemici o di emergenza sanitaria – e la possibilità di correggersi. Esprimere incertezze e discutere in seno alla comunità scientifica le diverse posizioni è essenziale: purtroppo queste caratteristiche del metodo scientifico sono state interpretate, soprattutto dai media e social media, come una debolezza e non come elementi virtuosi”.
Le scienze umane quale ruolo hanno nella accettazione delle fragilità umane, come appunto la possibilità di ammalarsi? Non vedo una spartizione, né una competizione, immagino piuttosto una proficua collaborazione tra due prospettive diverse, ma entrambe devono ruotare attorno allo stesso perno fatto di prove di efficacia, evidenze basate sui dati, e al principio che le interpretazioni non sono libere: esistono fatti veri e fatti falsi. In questo mi pare che il metodo scientifico abbia dato negli ultimi due secoli un impulso alla conoscenza che le scienze umane non sono state in grado di dare, pur avendo una maggior propensione e tradizione sugli aspetti valoriali dell’impresa umana. Immagino un futuro dove umanisti e scienziati, avvalendosi di strumenti diversi, non possano più fare a meno l’uno dell’altro”.
(Almanacco della Scienza N.17, 2022)