Thursday, April 18, 2024

Ida Travi: la parola pronunciata

Intervista di Marina Agostinacchio

Ida Travi nasce in provincia di Brescia, a Cologne. La sua poetica si inscrive nel rapporto tra oralità e scrittura e occupa una posizione unica nel panorama della poesia italiana. È a Milano negli anni Ottanta, dove collabora all’edizione italiana del magazine Rolling Stone con la rubrica “Angolazioni”.  A metà anni novanta si trasferisce a Verona, dove è redattrice di “Anterem”.
La sua poetica tra scrittura e oralità è esposta nei saggi L’aspetto orale della poesia (Selezione Premio Viareggio 2001) e Poetica del basso continuo. Per Gli Amici della Scala di Milano, nel 2000 cura gli incontri con Mario Luzi, Milo De Angelis, Emanuele Severino, Carlo Sini.
Con “Diotima e la suonatrice di flauto”, “Neo/Alcesti” e “La corsa dei fuochi”, per tematica e riferimenti si definisce per Ida Travi una sorta di periodo greco

Nel suo interessante saggio “L’aspetto orale della poesia” (Moretti e Vitali editore) di Ida Travi, ho potuto cogliere la particolare visione dell’essere poeta-cantore, che concepisce il rapporto tra oralità e scrittura, voce da cui passa la conoscenza di sé e del mondo. Ho seguito le tracce del Poeta rabdomante che, come il genio cieco di Omero, diviene il cantore del mondo che interpella il profondo, l’utopico, il profetico, che dice la verità attraverso la completa partecipazione del cuore, cosicché l’atto del pronunciare, facendo ricorso alla memoria, si stacca dal segno puramente grafico per divenire ancora neo-nato, “il beato”, il desiderante. Il percorso della poesia tracciato dalla Travi muove dal riconoscimento di uno spazio di oralità che, a un certo punto, subisce una metamorfosi; la parola poetica, infatti, da “opera della voce” diventò opera delle mani poiché scritta e da lì parola pronunciata legata alla lettura. Quello spazio iniziale di oralità che Ida Travi definisce, la “prima lingua”, un pre-linguaggio, coincidente con la lingua poetica, subisce una sorta di recupero nel dinamismo di ritmi e suoni riprodotti dalla relazione neo mamma/ neonato, appresa sul nascere. Leggendo questo saggio scopriamo le tracce dell’antico dentro di noi, dentro la contemporaneità in cui siamo immersi, avvertiamo la presenza della voce che si fa portatrice di conoscenza ripercorrendo la figura dei cantori, della loro voce che declama assorta mentre l’ascoltatore schiude la bocca, seguendone il canto, facendo risalire immagini dalla mente ad opera di quel suono.

L’Idea Magazine: Come nasce Ida Travi poeta, quali le circostanze, la necessità impellente di essere “voce poetica”?
Ida Travi: Alla poesia sono arrivata in maniera indiretta, attraverso un lungo percorso. All’inizio scrivevo brevi racconti. Il primo racconto pubblicato uscì su Linus nel 1979 grazie ad Oreste Del Buono che allora dirigeva l’edizione italiana della rivista: aveva indetto una specie di concorso per esordienti. Fu molto emozionante leggere quel racconto pubblicato su Linus. Il racconto si intitolava Quinto mese. A metà anni ’80 cominciai a scrivere prosa poetica: si trattava di una forma di scrittura ibrida, in bilico tra prosa e poesia. Forse era già poesia, chissà, ma la scrittura era senza a capo, e con pochissima punteggiatura. In questa forma uscirono due libri per la piccola pionieristica casa editrice Corpo 10, curata da Michelangelo Coviello: “Vienna” e “L’abitazione del secolo”. Forse qualche copia di questi libri si trova ancora, ma la Casa Editrice dopo una decina d’anni ha chiuso. Poi è arrivato il corpo a corpo con la poesia. Era la fine degli anni ’80.  Non saprei dire come è accaduto ma di fatto e senza una ragione precisa, ho cominciato a dare una misura ai versi: è stato un momento magico per me, è stato un fremito scoprire che potevo abbandonarmi alla poesia, averne fiducia.
Con la poesia scoprivo in me stessa uno spazio di grande libertà e contemporaneamente un desiderio di rigore: da un lato potevo scrivere tutto quello che volevo, d’altro lato compresi subito che per arrivare alla poesia dovevo sacrificare molte cose. Capii che dovevo scrivere solo poche parole, solo le necessarie: per quanto potesse esser bello e affascinante un verso se non necessario andava sacrificato, doveva restare fuori. Dico queste cose perché sempre sono stati passaggi semplici, pratici, a rivelarmi le rivoluzioni in atto dentro di me: frasi, tappe, accadimenti. Nella necessità della poesia tutto trovava una forma nuova bastava una parola, una riga, e si apriva un mondo. Mi pareva impossibile. Ho capito subito che ero nel bel mezzo d’un cambiamento interiore, e che non si trattava semplicemente di passare da una forma all’altra. Era cominciato un felice lavoro di scavo.

L’Idea Magazine: Circa quanto dici sulla parola pronunciata, spiegheresti ai nostri lettori a cosa approderebbe questo particolare uso della lingua poetica?
Ida Travi: Sin dall’inizio, entrando in poesia mi sono resa conto che avevo un modo di procedere differente dai poeti che frequentavo in quegli anni a Milano, dove vivevo. Questi amici erano tutte figure destinate a diventare grandi poeti, anzi già lo erano: Milo De Angelis, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Vivian Lamarque… adoravo la loro poesia ma sentivo che in me si agitava qualcosa di differente. Ancora non sapevo di cosa si trattasse ma avvertivo chiaramente che stavo per imboccare una direzione differente. Una sera dopo una pubblica lettura in cui avevo affidato la lettura dei miei testi a un attore, Giancarlo Majorino mi disse: “devi leggerli tu, i tuoi testi: sembrano scritti per essere detti e soprattutto per essere detti da te.” Quella frase fu il primo passo verso la comprensione di ciò che andavo facendo. Sentivo di andare verso una poetica che accorciava la distanza tra parola scritta e parola pronunciata, fino a capire chiaramente che al lavoro della scrittura dovevo assolutamente affiancare l’opera della voce.
Mi trovai così piano piano a stendere alcuni appunti sul rapporto tra oralità e scrittura. In Italia in quegli anni ancora non si parlava di poesia orale. C’era il libro e parlare d’oralità pareva una cosa assurda. Io mi sentivo sempre più un pesce fuor d’acqua. Mi rivolsi così allo studio dei Greci, tornai là, in quel lunghissimo tratto di storia attraverso il quale la civiltà greca era passata dalla forma orale alla forma scritta. In pratica ai miei occhi comparve l’enorme affresco del tempo in cui i grandi poemi omerici, prima tramandati oralmente, arrivarono a essere trascritti. E sull’immensa millenaria scia della trascrizione epica, arrivò anche la tragedia greca immobile nella sua forma d’origine, così come ce la consegnarono Eschilo, Sofocle e Euripide. Si, anche la tragedia greca nell’immensità di quei secoli, veniva scritta per essere poi detta, veniva scritta perché gli attori, dietro la maschera tragica, potessero recitarla ad alta voce. MI trovai immersa in appunti, appunti su appunti a cui decisi di dare una destinazione: nacque così il mio primo libro di riflessione teorica sulla poesia che andavo facendo: ‘L’aspetto orale della poesia’.

L’Idea Magazine: Ci specificheresti il tuo punto di vista relativo all’aspetto dell’uso della memoria in poesia?
Ida Travi: Questa è la domanda più appropriata per capire la dinamica che si creò in me a quel punto: certo, mi dicevo, è vero, occorre accorciare la distanza tra parola scritta e parola pronunciata, ma come si fa? Che ne è del libro che è qui accanto e così amorosamente stampato? Non si tratta semplicemente di leggere ad alta voce, mi dicevo, una lettura ad alta voce non c’entra niente con la dimensione orale, è semplicemente lettura ad alta voce… La dimensione orale segue tracce invisibili non segue mai tracce scritte. Mi convinsi così che per avvicinarmi alla mia idea di dimensione orale prima di tutto dovevo staccarmi dal libro. Dovevo togliere di mezzo Il libro. Avevo l’impressione che negli eventi pubblici si frapponesse tra me e chi mi ascoltava e in qualche modo facesse barriera. Fu così che cominciò il lavoro della memoria: questi versi li ho scritti io, mi dicevo, non un’altra persona… e se li ho scritti io perché devo leggerli quasi come se fossero i testi di un altro? CI riflettei sopra a lungo e alla fine decisi che nei cosiddetti reading sarei staccata dal libro, ne avrei fatto a meno. La pubblicazione dei libri non si opponeva al mio discorso: i libri andranno per conto loro, mi dicevo, ma là dove potrò essere presente io sarò presente con la memoria e con la voce.

L’Idea Magazine: In quale misura è importante per un poeta avere in sé consapevolezza di una parola poetica coincidente a quello che definisci pre-linguaggio?
Ida Travi: Ne parlo in L’aspetto orale della poesia dove chiamo prima lingua la lingua che si parla in casa, prima della scuola, cioè prima di conoscere l’alfabeto scritto. La prima lingua è una lingua orale, viva, piena di invenzioni, balbettii, sonorità mai insignificanti: anche quando non se ne afferra il significato si comprende nel suono della voce.  Parole un po’inventate, ad alta conoscenza emotiva, lallazioni, cantilene. La prima lingua, che chiamo anche lingua parlata sul nascere, precede ogni discorso, bada al senso non più al significato delle parole. Anche la parola più dolce può diventare spaventosa se pronunciata in un certo modo: i toni della lingua parlata sono alla base d’ogni linguaggio non scritto, somigliano alla musica, ma stanno tutti nella nostra voce. Ciò che venne in noi nell’infanzia sotto forma di parola pronunciata resterà per sempre un ‘impronta, un insegnamento non scritto: tornare a quella prima lingua è impossibile ma qualcosa di quel pre-sentimento riaffiorerà forse un bel giorno in poesia.

L’Idea Magazine: In che modo l’atto del pensare, l’opera creativa della mente, può rendersi segno visibile nella scrittura e, oltre, atto conoscitivo attraverso la parola pronunciata?
Ida Travi: L’atto del pensare è un atto già radicato nel linguaggio. Noi pensiamo già in parole. Ogni atto del pensiero per senso e significato è già parola, anche se si tratta di una parola muta, ancora non udibile nel suo suono, ancora non visibile in un segno, se poi scritta. Se l’atto del pensare è pura opera della mente, l’atto dello scrivere è stato per millenni opera della mano e lo sarà finché per avere qualcosa di scritto sarà necessario far scorrere una penna su un foglio, o pigiare una tastiera, o utilizzare altri media con le dita, ogni opera scritta, sarà opera della mano. Il pensiero diventa opera della voce nel momento in cui quel pensiero lo formuliamo ad alta voce. Una frase, un discorso, una poesia. Altra cosa è ogni forma d’arte che si rifà più o meno esplicitamente al segno grafico o alle lettere dell’alfabeto e ne fa opere visive o sonore e include ogni forma d’arte sperimentale a partire dalle avanguardie del Novecento alle più recenti e innumerevoli forme dell’arte contemporanea.

L’Idea Magazine: Dici nel tuo saggio: “La voce più è vicina al vero, più racconta le favole”. Sarebbe come dire che nella voce che racconta attingendo dall’immaginazione, proprio in quello spazio può trovare il richiamo alla propria essenza, alla cifra identificativa di sé e del mondo?
Ida Travi: Nel saggio L’aspetto orale della poesia là dove scrivo: “La voce più è vicina al vero, più racconta le favole”. Mi riferivo al fatto che nessuna verità è impossibile da raccontare: il nostro linguaggio nasce separato da ogni verità, viene sempre dopo. Forse il modo più umano di avvicinarsi al vero, interrogarlo, riconoscere che siamo esseri più piccoli della verità, ne rappresentiamo una piccola parte e abbiamo bisogno di mille risposte. Meglio lasciare che il vero getti da sé qualche luce nel buio, così come succede nelle favole, o in poesia.

L’Idea Magazine: Ho trovato interessante il discorso che fai sulla terza persona: un tu, un io, dici, in un limbo dai contorni labili, come sospesi nel sonno di una terza persona. Mi piacerebbe mettessi a fuoco questo tuo pensiero.
Ida Travi: Tutto la letteratura contempla questa terza persona. Può essere lo stesso io, può essere un tu, può essere un fantasma. Lo vedi nei romanzi, nei racconti, lo vedi in poesia. Chi parla? Chi scrive? L’autrice, l’autore? Si, ma nella testa di un autore, di un’autrice ci sono ci sono i suoi discendenti e i suoi antenati. iI padre, la madre, un dio. Sotto gli occhi di chi scrive c’è tutto un mondo popolato da misteriose entità che mettono in ordine parole e fatti. La terza persona è anche il tempo che fa di noi ad ogni istante persone in cambiamento. Ero grande, ero piccola, ero molto piccola…. Io chi? Nel suo andare il tempo ci rende irriconoscibili.

L’Idea Magazine: Ci parleresti ora della serie dei Tolki, figure itineranti nel tempo, i parlanti…?
Ida Travi: Molto importante è il concetto di serie. Si tratta di sette libri: cinque editi da Moretti&Vitali, il sesto e il settimo editi da Edizioni Volatili, con partiture visive di Giuditta Chiaraluce. Il concetto di serie, per quanto ne so, non rientrava nella logica della poesia contemporanea, almeno in Italia. Il Novecento ha portato la musica seriale, in arte basta pensare a Andy Warhol, ma la poesia contemporanea mi sembrava rimasta lontana da questo concetto. Io invece volevo fare qualcosa che avesse a che fare con il tempo, in particolare con il concetto di durata e così dal 2011 al 2022 sono nati uno dopo l’altro questi sette libri sui Tolki, i parlanti. Il percorso poetico della serie dei Tolki è durato 12 anni.
“E molto importante è nei Tolki il concetto di persona.”. Noi chi? Loro chi? I parlanti sono esseri marchiati dal linguaggio. Parlano una lingua ridotta all’osso. Sono esseri umani misteriosi e semplici. Miserabili quasi, ma potenti nel vivere. Sembrano senza psicologia. Vivono in luoghi strani, forse ai margini d’una città, un campo, un recinto, o lo scantinato d’un vecchio teatro. Il nome Tolki è un neologismo, una parola inventata, uno slittamento sonoro dal verbo inglese to talk.

L’Idea Magazine: Esiste una continuità di pensiero tra le prime tue raccolte di poesie e queste ultime?
Ida Travi: Certo. I miei studi, le mie passioni.  La filosofia greca antica, la tragedia, i poemi epici… tutto resta come impercettibile sottofondo a sostenere, forse a dare peso, a una poetica che nasce in un tempo povero come il mio. E certo i grandi poemi omerici tramandati oralmente per secoli e secoli e da me conosciuti dopo millenni in forma scritta mi hanno rinnovato la questione oralità-scrittura. Ne ho tratto davvero poco, ahimè, ma ho cercato di imparare da lì: mi è stato subito chiaro, come in una lunghissima scia, che già allora, nella luce di quei secoli, i poemi omerici erano in se stessi una grandiosa serie capace di reggere l’urto dei millenni Quella  grandiosità è irripetibile, ma tra voce e segno lentamente è arrivata fino a qui, parola per parola, frammento per frammento… Così qualcosa di minuscolo, un minimo residuo,  è riuscito a entrare in me e mi ha fatto pensare a un popolo parlante -male molto male- come si parla oggi, poeticamente, in fondo mi ha fatto pensare a come umanamente viviamo, migriamo nel linguaggio.

Marina Agostinacchio
Marina Agostinacchio
Nel 1998 e nel 2007, Marina Agostinacchio è tra i vincitori del concorso nazionale di poesia “Premio Rabelais”. Nel 2006 è tra i finalisti del Premio “Tra Secchia e Panaro”. Nel 2002 ha ottenuto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesie Porticati, nel 2009 la raccolta Azzurro, il Melograno, nel 2012 Lo sguardo, la gioia, nel 2014 Tra ponte e selciato. Nel 2021, Marina Agostinacchio ha pubblicato i volumi bilingue di poesie "Trittico Berlinese", 2021, e "In the Islands of the Boughs", 2023.

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