Un personaggio del nuovo film di Paolo Sorrentino, riferendosi al Cinema, afferma sicuro che “in questo ambiente del cazzo mai nessuno parla chiaro” e quindi, di fronte ad una constatazione così esplicita, provo ad attestare subito che Youth-la giovinezza è una pellicola piena di talento.
Non mi riferisco tanto alla riflessione che attori nel film fanno sul valore delle doti umane nelle arti, quanto alla qualità tecnica con cui quest’opera è realizzata.
Una trama in cui succede poco, ambientata in un hotel noiosissimo delle alpi svizzere. E lo capiamo subito, con una prima scena ripresa in tondo quasi a dirci che tutto si muoverà in quel perimetro lì. Vicenda lenta sì ma ripresa invece con tanta dinamicità. Cifra stilistica raffinata quando Sorrentino, che varia costantemente gli stilemi di ripresa in tutto il film, ricorre anche a metonimie e sineddoche visive: un muro, apparentemente indefinito, si scopre poi essere parte dell’hotel chiamato a rappresentarlo in scena; oppure una poltrona e un tavolino gli unici elementi che identificano questo struttura alberghiera sempre presente.
La malinconia dei protagonisti, avvelenati dal pensiero che la giovinezza sia svanita per sempre, è la benzina che muove questo tableau vivant di attori bravissimi dove ci sono dalle miss universo, alle dive decadute, dai musicisti in pensione ai cantanti carcerati in clinica per dementi. Il surreale e il grottesco, temi cari a Sorrentino, sono qui però meglio bilanciati che ne La Grande Bellezza (film pieno di stucchevole maniera e asfittica caratterizzazione dei personaggi). La malinconia è talmente percettibile che lo spettatore si identifica inevitabilmente. Sorrentino lo aiuta allora a riprendersi facendo dire ad Harvey Keitel “Ora non esagerare tutta questa verità. Ricorda che la finzione è il nostro lavoro“. Che impatto queste scene! Costantemente proposte da prospettive inconsuete e angolazioni inattese.
Tutto è disagio. E c’è una riflessione consolatoria anche sui “sensi” umani (il tatto di una massaggiatrice, la postura del corpo per un violinista, …) perché “nessuno al mondo si sente all’altezza, quindi non c’è da preoccuparsi“.
Il suono (della colonna sonora) è sinergico agli stacchi del montaggio, ai jump cut che interrompono bruscamente le scene. Scelta tecnica utilizzata molto bene (cosa rara nel cinema contemporaneo, va detto). Di questo film ricorderemo, appunto, anche come Michael Caine arrotola freneticamente, con le dita, la carta di una caramella e ne diffonde il rumore.
Ulteriore amara riflessione, quasi metacinematografica: la vecchiaia che cambia la distanza con cui si percepisce il reale. E’ il cannocchiale l’oggetto che, se usato correttamente, mostra le cose come si vedono in gioventù ma se adoperato al contrario mostra la realtà in piena lontananza, proprio come è percepita in vecchiaia. “Sono solo un vecchio pieno di pregiudizi” dice spiaciuto Michael Caine.
E quando entra in scena Hitler, Sorrentino gli mette in bocca il senso complessivo del tema portante: “Cosa vale la pena raccontare: l’orrore o il desiderio? È il desiderio che ci rende vivi“.
Ma alla fine arriva simbolicamente la speranza, rappresentata da un silente monaco buddista il quale sa trasformare la noia di quel luogo in pace, tanto da arrivare a lievitare un metro dal suolo.
Vale davvero la pena andarlo a vedere questo piccolo capolavoro.