Per quale ragione la schiuma dello spumante è diversa da quella della birra? Da dove deriva il sentore di tappo nel vino? A rivelarlo è Matteo Guidotti, ricercatore dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Consiglio nazionale delle ricerche
“La chimica ci circonda: lo sappiamo tutti” è una frase che i nostri insegnanti ci ripetono a scuola, sin dalle prime lezioni di scienze in tenera età. Però, quando è un chimico a osservare la chimica che lo circonda, sorge immediato quell’effetto di stupore e curiosità che fa scoprire la meraviglia persino in ogni dettaglio del più banale fenomeno quotidiano.
Spiegazioni tutt’altro che banali sono alla base, ad esempio, della natura e del comportamento radicalmente diverso della spuma sul bordo di un calice di spumante metodo classico o di quella in un bicchiere di birra. In entrambi i casi il diossido di carbonio prodotto a partire dagli zuccheri presenti nell’uva, nel primo caso, o nel malto d’orzo, nel secondo, ad opera dei lieviti della fermentazione alcolica, va a disciogliersi nelle soluzioni acquose complesse che diverranno, rispettivamente, vino e birra al termine di una serie di lavorazioni e di stagionature. Nella bottiglia chiusa, la pressione aumenta fino anche a 6 bar nel caso dello spumante più pregiato, mentre si ferma solitamente a circa 2 bar per la birra. Al momento della stappatura, il gas, non più in equilibrio con il liquido circostante, tende a liberarsi in aria, dando origine alle cavità nel liquido (che noi chiamiamo “bollicine” o “perlage” per lo champagne) che si formano a partire dalle piccole imperfezioni del vetro della bottiglia o da invisibili corpi estranei presenti sulle pareti del bicchiere e si dirigono verso la superficie della bevanda.
La grande differenza nella composizione dei due liquidi è però la vera responsabile del diverso comportamento delle due spume. Le “bollicine” di spumante, con dimensioni di circa un millimetro, procedono rapide verso l’alto, esplodendo subito in superficie e formando un sottile anello di spuma evanescente sul perimetro del bicchiere. Nella birra, le cavità sono invece ancora più fini, con diametro al massimo di mezzo millimetro, e in prossimità della superficie danno luogo a uno strato di schiuma molto persistente e voluminosa. Nei vini, infatti, il più alto contenuto di etanolo (intorno al 12% per i vini bianchi spumanti) e il bassissimo contenuto di sostanze proteiche (dell’ordine di 0.01 grammi per litro) fa sì che le “bolle” si sviluppino in modo vigoroso, aumentando di diametro, procedendo verso la superficie e scomparendo subito dopo. Le birre invece contengono in media meno etanolo (solitamente tra 4 e 6% in volume), molte più sostanze proteiche (dell’ordine di 1 grammo per litro) derivate dai cereali usati durante la produzione del malto e, non ultima, una buona quantità di sostanze resinose e di composti organici complessi, come il lupulone e l’umulone (grandi molecole di 68 atomi, la prima, e 56 atomi, la seconda), derivati dal luppolo impiegato come ingrediente aromatico. Il diossido di carbonio, dunque, nella birra appena stappata, genera cavità molto fini che restano subito “rivestite” da queste sostanze complesse che, a loro volta, sulla superficie del liquido, si comportano come tensioattivi, impedendo alle bollicine di coalescere (la coalescenza è il fenomeno fisico attraverso il quale le gocce di un liquido, le bollicine di un aeriforme, o le particelle di un solido si uniscono per formare delle entità di dimensioni maggiori) e di ingrandirsi, con un risultato di schiuma ferma e compatta analoga a quella che si osserva con i saponi.
Allo stesso modo, quantità davvero minime di molecole particolari possono influenzare drasticamente la nostra percezione di alcune bevande alcoliche. È il caso del 2,4,6-tricloroanisolo, la principale sostanza responsabile del sentore “di tappo” nel vino. Questa molecola si può sviluppare nella corteccia di alcune querce da sughero su cui sono presenti funghi parassiti (tra cui anche Armillaria mellea, il comune chiodino): quando il fungo entra in contatto con alcuni composti organici clorurati, presenti nel ciclo industriale di produzione del sughero, li trasforma dapprima in clorofenoli e in seguito in cloroanisoli, che possono essere così rilasciati dal tappo al vino, conferendo lo sgradevole odore a tutta la bottiglia anche a concentrazioni dell’ordine dei 10 nanogrammi per litro (cioè 10 miliardesimi di grammo!). Uno studio giapponese del 2013 ha però evidenziato che il tricloroanisolo non ha un odore suo proprio; al contrario, inibisce parte dei recettori olfattivi inducendo una risposta sensoriale deficitaria e falsata che il nostro cervello interpreta come sensazione del tutto sgradevole.
[Almanacco della Scienza N.5, Aprile 2023]