Tuesday, April 16, 2024

Ma davvero siamo tutti più buoni?

Di Danilo Santelli

Attraverso la pellicola “Il Grinch” del regista Ron Howard, affrontiamo alcune patologie sociali dell’essere umano, che nel film vengono impersonificate da una creatura verde che detesta il Natale e la compagnia degli abitanti del suo villaggio. In ognuno di noi può albergare un Grinch? A risponderci è Antonio Tintori dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche, presidente del Comitato unico di garanzia dell’Ente

“Il Grinch”, film del 2000 del cineasta americano Ron Howard, premio Oscar per il miglior trucco, tratto dall’omonimo libro illustrato del Dr Seuss (pseudonimo di Theodor Seuss Geisel), racconta la storia di una creatura verde antropomorfa che vive da eremita su una montagna, a poca distanza dai Nonsochi, abitanti del paese di Chinonsò.  Il Grinch, a differenza dei Nonsochì, odia i festeggiamenti natalizi e li schernisce con terribili scherzi per vendicare i torti subiti da alcuni di loro nel corso della sua infanzia. Nel corso del lungometraggio il protagonista, anche grazie all’aiuto di Cindy Lou Who, una piccola abitante di Chinonsò, avrà modo di affrontare una parabola di riscatto e di riavvicinamento ai tanto odiati compaesani.

Il tratto psicosociologico del Grinch ricalca alcuni aspetti della condizione umana che sembrano essere diffusi nelle società contemporanee. “L’estraniazione, anche come espressione di ribellione, è una delle possibili reazioni alla pressione dei condizionamenti sociali. Il senso del dovere e il rispetto delle regole sono canoni dai quali ci si può emancipare, a patto che ci si scrolli di dosso convinzioni indotte dall’ambiente di cui siamo parte. L’isolamento è una delle soluzioni estreme, per dirsi fuori dagli schemi, ma in questi convivono anche gli affetti e le soluzioni ai problemi insiti nella natura dell’individuo in quanto animale sociale. Pertanto, essere totalmente fuori da credenze e obblighi potrebbe tradursi in una scelta che implica costi più alti dei benefici che deriverebbero dalla libertà di poter scegliere autonomamente spiega Antonio Tintori, referente del gruppo di ricerca Mutamenti sociali, valutazione e metodi (Musa) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr di Roma e presidente del Comitato unico di garanzia (Cug) dell’Ente. “Negli ultimi anni, peraltro, la diffusione globale del Covid-19 ha generato una riduzione della prossimità fisica e la massiccia trasposizione dell’interazione umana sul piano virtuale, determinando un irreversibile coinvolgimento delle persone in relazioni che si stabiliscono anche esclusivamente a distanza. Soprattutto i giovani, nel pieno dello sviluppo biopsichico, sono sempre più dipendenti dagli smartphone e da internet, e per questo sempre più affetti da patologie sociali, come il phubbing e il cyberbullismo. La pandemia non ha aperto la strada alla critica dell’individualismo e del narcisismo strutturale, quanto a relazioni sempre più digitali, inconsistenti e mistificate da profili social sintetici. Non per questo i giovani diventeranno tutti hikikomori, ma il rischio è quello di adagiarsi sull’idea che l’interazione virtuale possa sostituire quella reale”.

Mani che stringono uno smartphone

La pellicola affronta anche il tema del consumismo, del materialismo e del conformismo, espressioni molto presenti nel lessico del nostro tempo. “Il consumismo e il materialismo sono connessi al concetto di società di massa, nozione che nel tempo è stata sottoposta a diversi paradigmi interpretativi. Possiamo ragionevolmente ritenere la massa come un elemento che porta con sé alcune dinamiche di costrizione implicita, manipolazione ed omologazione che rendono gli individui solo apparentemente liberi di compiere scelte di vita totalmente autonome. È molto improbabile che possa ridursi l’impatto sociale del consumismo, del materialismo e anche dell’individualismo, che hanno ormai acquisito una dimensione pressoché globale. La stessa pandemia, che ha costituito un grosso shock comportamentale, ha di fatto intensificato il consumismo, che da elemento di compensazione sociale ed emotiva si è spinto verso una deriva patologica, dando sfogo alla parte emotivamente deprivata del nostro essere irrazionale”, prosegue il ricercatore del Cnr-Irpps.

Le festività natalizie che fanno da sfondo a “Il Grinch” richiamano l’idea della prossimità tra persone care e anche la questione della reciprocità sociale. “La reciprocità è un concetto che rievoca gli ideali di libertà e di uguaglianza, parole spesso spoglie di concretezza, che da molti viene percepita come eccessivo buonismo e ingenua fiducia nel prossimo. Di fatto, il mondo è pieno di esempi che testimoniano quanto essa sia poco praticata, a partire dai divari economici tra nord e sud del Mondo, passando per quelli sociali e politici che alimentano anche i fenomeni migratori. A causa delle nuove incertezze sociali e del graduale disgregarsi dei legami comunitari, si evidenzia un crescente relativismo che enfatizza il bisogno di autorealizzazione individuale, meta ormai socialmente desiderabile e condivisa, al punto tale da appannare l’essenza solidaristica e ugualitaria che dovrebbe essere precondizione di ogni società che voglia definirsi civile. A mio parere è possibile far convivere l’importanza attribuita al singolo con quella diretta alla collettività, intesa come sistema aperto, struttura di legami proficuamente interrelati. La sfida sta nello smascherare un equivoco di fondo, quello che alimenta il concetto dell’egoistico profitto, superando la credenza fallace del benessere in quanto fatto esclusivamente personale”, conclude Tintori.

redazione
redazione
Tiziano Thomas Dossena, Leonardo Campanile, LindaAnn LoSchiavo, and Dominic Campanile

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