Di Patrizia Di Franco
In Italia ogni 72 ore viene commesso un femminicidio, dall’inizio dell’ anno ad oggi il numero delle donne uccise è impressionante, oltre un centinaio, e in base ai recenti dati Istat, il 58,8% di loro ha perso la vita per mano di un partner o ex marito, fidanzato, convivente. I numeri sono inquietanti ma quando si parla di assassinii di donne, di aumenti di femminicidi, occorre riflettere, soffermandosi oltre che su dati statistici, sul fatto che non si tratta di un algido elenco quantitativo, ma di vite spezzate, esistenze umane. Donne che non ci sono più, in Italia e nel mondo, per colpa di spietati e violenti maschi.
“Come parliamo, quando parliamo di donne? Qual è il linguaggio con cui i mass media si esprimono in termini di genere?”, sono stati questi, titolo e interrogativi, di un accurato e interessante dibattito, nella Sala conferenze del teatro “Margherita” di Bari, nel contesto del ciclo di incontri con approfondimento del “World Press Photo Talks” , a cura di Vincenzo Cramarossa. Relatrici e conduttrici del talk: Giulia Siviero, giornalista femminista de “Il Post” e collaboratrice di altre testate tra cui “Il Manifesto”, “L’Essenziale” e “Internazionale”, e Vanessa Riela, dottoranda in filosofia nell’Università degli Studi di Bari. Un argomento doloroso e di stringente attualità, anche alla luce delle recenti discussioni e perplessità sul linguaggio di genere a seguito dell’insediamento del nuovo governo e della prima donna Premier in Italia, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha voluto farsi chiamare “Il Presidente” . Il linguaggio di genere è di fondamentale importanza, non si occupa soltanto della definizione di desinenze o dell’uso di nuovi segni grafici, consuetudini linguistiche nella comunicazione verbale, sostantivi declinati al maschile o al femminile (“la ministra”, “il ministro”, “il direttore”, “la direttrice”). La questione è rilevante, non marginale o pleonastica, considerato che riguarda il discorso politico, le dinamiche di potere interne alla società, e soprattutto la forma mentis, la cultura del patriarcato, della misoginia e maschilismo fortemente radicata in Italia e in moltissimi paesi del mondo. Tale cultura, ha sottolineato Giulia Siviero, produce violenze e femminicidi.
Vanessa Riela ha posto alcune domande alla giornalista, e introdotto l’incontro, partendo proprio dagli stereotipi e da consuetudini ormai divenute quasi prassi, dalle discriminazioni e dalle connotazioni, etichette, indotte dalla società, dalla cultura maschilista e patriarcale, a cominciare dai giochi e dai colori, l’azzurro per bimbi e il rosa per le bimbe, dalle attività sportive, ai mestieri, alla metafora del “glass ceiling” , il “soffitto di cristallo” che secondo esperti e studiosi non verrà mai sfiorato veramente, e per un’autentica e sostanziale parità di diritti, tra cui la parità di retribuzione, che verrà presumibilmente raggiunta a fatica tra 50 anni, per adesso vi sono in atto soltanto tentativi spesso fallaci e the gender equality strategy (strategia per la parità di genere, allo studio e vaglio della UE) .
Troppe le barriere, gli ostacoli, le opposizioni, sociali, culturali, politiche, ideologiche, psicologiche, che impediscono il pieno conseguimento della parità dei diritti in toto e l’effettiva opportunità di fare carriera nel proprio campo professionale e lavorativo per “categorie”, così denominate, storicamente soggette a discriminazioni, come le donne nella fattispecie, ma anche diversamente abili, anziani, minoranze. Per analogia con il termine “soffitto di cristallo”, nel 2004 venne coniato dai professori britannici Michelle K. Ryan e Alexander Haslam, dell’Università di Exter, “the Glass Cliff”, “la scogliera di cristallo” che sta ad indicare una particolare situazione in cui il ruolo di “leader” viene più facilmente assegnato a una donna nei momenti storici e geopolitici di grave crisi, e quando ogni scelta per l’appunto comporta elevati rischi di fallimento e impopolarità, in sintesi se tutto andrà bene sarà frutto di un lavoro di squadra, se tutto andrà male la colpa sarà esclusivamente della donna, un atteggiamento deresponsabilizzante e ipocrita, che fa credere alla donna diventata “leader” (capi si è e si muore, leader si è e si diventa, la maggior parte è costituita da capi, i veri leader sono rari) di avere acquisito “potere” e di essere riuscita ad abbattere il muro della cultura imperante, patriarcale. In pratica ciò che è accaduto per Meloni, la quale però, e non soltanto nell’opinione di femministe, emancipazioniste, transfemministe, sociologi, psicologi, esperti della comunicazione, giornalisti liberi e indipendenti, ma anche secondo una folta parte di cittadinanza civile, non solo non sarebbe una leader ma, ciò che sarebbe più devastante, incarnerebbe ella stessa quella cultura patriarcale e maschilista che incancrenisce la società e l’Italia. Dalla scelta de “Il Presidente” del Consiglio, agli outfits rigorosi e mascolini, quasi sempre tailleur giacca e pantaloni, in rare occasioni, internazionali, scarpe con tacco alto, e, ciò che più conta del look “rassicurante”, severo, del corpo nascosto, in riferimento alle politiche per il genere femminile: dai bonus, sussidi e aiuti per le donne, per cui vengono discriminate le stesse donne, appannaggio esclusivo di donne sole ma con figli, o madri di famiglia, all’idea di revisione della Legge 194 (del 1978 ) che ha regolamentato le modalità di accesso all’aborto. Sull’argomento si è soffermata a lungo la giornalista Siviero, confessando di essere preoccupata e affermando che i diritti purtroppo non sono, come dovrebbe essere, per sempre, che dietro l’angolo rischi e insidie, trappole, non sono congetture o timori infondati: “Il punto più basso e inaccettabile della 194 è l’obiezione di coscienza.
La legge non parla mai di libera scelta e autodeterminazione. “Movimento per la vita” ha cercato di abrogarla, non ci sono riusciti neppure le altre associazioni e movimenti antiabortisti che invece stanno cercando di persuadere e aiutare, pure economicamente, le donne, pur di non farle abortire. Il Ministero non fornisce tutti i dati, la fotografia consegnataci della 194 non è realistica, non è veritiera. In Piemonte hanno stanziato per il 2022-2023, 460mila euro, di cui elargito 400mila euro per finanziare centri e movimenti antiabortisti, per, come sostengono, promuovere il valore sociale della maternità e la tutela della vita nascente. Le decisioni personali e private del singolo soggetto devono essere sempre rispettate e tutelate, non boicottate, osteggiate, specialmente per questioni e condizioni che attengono le scelte sul proprio corpo e le scelte riproduttive. Quasi il 65% dei ginecologi in Italia non garantisce e consente l’applicazione della 194, si tratta dei ginecologi obiettori. Nemmeno la pillola antiabortiva in realtà è contemplata e assicurata nella 194”. Invece nella stragrande maggioranza di altri paesi europei in cui si ricorre all’utilizzo legittimo della RU486, tutta la procedura viene espletata in assoluta sicurezza, in regime ambulatoriale o a domicilio, inoltre nel resto d’Europa si può assumere la pillola abortiva entro le 9 settimane, in Italia il limite è fissato a 7. In base all’opinione di molti esperti in materia, la Legge 194 andrebbe revisionata, soprattutto per quanto riguarda gli articoli 4, 6, e 7, e tra i maggiori oppositori a ciò figurerebbero, oltre alla politica di vari schieramenti e ideologie, alla cultura patriarcale e maschilista, misogina, il Papa e il Vaticano. Le donne insomma si ritrovano intrappolate in una società, in Italia e in molti paesi del mondo, che non sono luoghi e spazi per donne, vincolate o “piegate” dalla volontà altrui, da decisioni e scelte non personali e autonome. Giulia Siviero dopo avere parlato degli errori e delle pesanti conseguenze del patriarcato, dell’identità fissa, dei ruoli ben precisi affibbiati all’universo femminile, casalinga, madre, caregiver, anche nei ruoli “subordinati”: suora; catechista; e nei mestieri quasi esclusivamente femminili: baby-sitter, badante, maestra, infermiera, e in tutti quelli relativi all’accudimento e alla cura della persona, in genere anziani o propri genitori, e di tutte le responsabilità e fatiche, (altro che il titano Atlante il quale regge il peso del mondo sulle spalle), che vengono scaricate sulle donne, si è soffermata sul compito e sulle narrazioni errate da parte dei media nei casi di violenze di genere e di femminicidio. Scorrono le slides e vengono evidenziati gli sbagli gravi a cominciare dai titoli dei giornali, dei telegiornali, di molti mass media, e anche trasmissioni, la giornalista cita “Amore criminale”, un ossimoro per ella e condiviso da molti altri pensatori, giacché non si uccide per amore, associare un reato, un crimine, un assassinio, all’amore, è sbagliato e inappropriato, e anche fuorviante. Conseguenze di errori non giustificabili sono l’identità offuscata, cancellata o addirittura colpevolizzata della donna uccisa, il focus e tutta l’attenzione vengono posti sul carnefice, ci si dilunga nel descrivere lui, la sua vita, paradossalmente si passa attraverso un perverso meccanismo nel deresponsabilizzarlo, quasi a “vittimizzare il carnefice”, alimentando inconsciamente un senso di pietas, compassione, nei suoi riguardi nella totale mancanza di empatia, solidarietà, umanità, sofferenza, rispetto, nei confronti di un essere umano, di una persona che è stata ammazzata. L’uccisore è descritto come incapace di intendere e di volere nel momento dell’atto criminale, con un passato problematico, oppure si forniscono indirettamente attenuanti giacchè era alcolizzato, tossicodipendente, depresso, extracomunitario non integrato nella comunità e nella società, discoccupato e mentalmente instabile, non lo si rappresenta in maniera oggettiva, nella sua nuda, cruda (e crudele) realtà di assassino. Infatti rimarca Siviero:”Il femminicidio è un’azione non una reazione. Un titolo come: ”La uccide perché divorato dalla gelosia” che razza di titolo è? In un certo senso si tende a empatizzare con lui, si cercano quasi “giustificazioni”, alla fine la colpa sarebbe da attribuire a chi è stata violentata, picchiata, stuprata, uccisa, rea di avere cagionato sofferenze e dolori strazianti che hanno scatenato la reazione dell’uomo e lo hanno portato a compiere un reato letale che in realtà non avrebbe mai voluto porre in atto. Tutto ciò è assurdo e intollerabile. Lo stesso accade nei casi di stupro”. Purtoppo, nella maggior parte dei casi e anche in larga parte dell’opinione pubblica, e perfino da parte di molte donne, sovente si sente dire: ”Se l’è cercata” perché era vestita in un certo modo, perché lo avrebbe provocato, da persona che ha subìto violenze e stupro, non consenziente, con dolo e ferite che nella maggioranza dei casi mai si riemargineranno, viene fatta passare per causa scatenante, per donna dai facili costumi. Esistono perfino, negli stupri e nei femminicidi, quelli di serie B, di “categoria minore”, quando vengono uccise prostitute, trans, sex workers schiavizzate, come se non fossero esseri umani, persone, donne. Giulia Siviero parla degli articoli, pessimi, o dei servizi televisivi, realizzati, costruiti, sulle opinioni dei vicini, spesso indifferenti o che descrivono l’assassino come una persona normale, tranquilla, che non aveva mai dato segnali di patologie mentali, e si mostrano increduli, quasi sempre dicono di non avere notato, visto, udito, qualcosa di strano, allarmante, anzi affermano tutto il contrario con frasi del tipo :” Era un uomo garbato”, “Era una famiglia normale, tranquilla”. Si arriva perfino a incolpare la donna per non avere denunciato. I motivi per cui una persona non lo fa, possono essere i più disparati (e disperati): paura, terrore, per la propria incolumità o quella dei figli; mancanza di indipendenza economica; timori comprensibili di ritorsioni in un’escalation di violenze che potrebbe causare il femminicidio; paura e ansia che le vengano sottratti i figli dagli assistenti sociali e affidati dai servizi sociali al padre; pudore, vergogna; isolamento e controllo costante attuati dal partner; timore che non sia fatta giustizia (affrontare un processo e rivedere il proprio aguzzino, sequestratore, stupratore, violentatore, non è una passeggiata, è un trauma nel trauma); distimia, angoscia, mancanza di energie e forze per reagire; timore del giudizio altrui soprattutto dei familiari e parenti, oppure, in vari casi, della gogna mediatica e pubblica; love addiction, dipendenza affettiva ( o come la sindrome di Stoccolma nei reati di sequestro di persona e violenze) nell’ambito di rapporti tossici. Non esiste un unico tipo di violenza, purtroppo la violenza ha mille volti aberranti, abominevoli ed esecrabili: violenza verbale, psicologica, fisica, sessuale, domestica, assistita (in presenza dei figli, spesso minori, bambini, o, peggio ancora, post mortem della donna, i cosiddetti orfani di femminicidio, e i survivors ovvero gli affetti più stretti e intimi, familiari, amici, parenti). Altri tipi di violenze sono: l’abuso emotivo; le micromanipolazioni; le ingiurie, denigrazioni, ipercritiche feroci volte a minare, sminuire e annientare il proprio valore e l’autostima, si tratta delle cosiddette ferite emotive, traumi e violenze inaudite, verbali, morali e psicologiche; body shaming; revenge porn; ghosting; stalking; benching; e perfino nei luoghi di lavoro: molestie sessuali; mobbing; straining; bossing. Milioni di donne incolpevoli violate, violentate, uccise da chi diceva di amarle o non voleva perderle, per orgoglio maschile ferito, perché “roba loro” e di nessun altro uomo, non una persona ma un possedimento, una “proprietà”. Quasi tutti gli esecutori di femminicidi tendono a giustificarsi, a fornire versioni personali non veritiere o suggerite dai legali, dalla difesa, a volere sottoporsi a perizie psichiatriche, sperando che sia riconosciuta loro l’infermità o la seminfermità mentale. Il “raptus” come motivo scatenante e attenuante. Per molti psichiatri, criminologi, esperti, il raptus non esiste, sussistono invece sempre malvagità, aggressività, crudeltà, violenze, consapevolezza, premeditazione, volontarietà. La stessa giornalista lo ha asserito durante il talk: “Spesso il movente è associato al raptus. Il femminicidio non è mai un atto di impulso. Si realizza un piano, si costruisce un percorso di mortificazione, umiliazioni, costanti, svilimento, denigrazione, screditamento, e altre forme di violenze, e infine l’assassinio, il femminicidio. La psicanalista junghiana Marina Valcarenghi ha raccolto testimonianze di uccisori e tutti i carcerati le hanno risposto: ”Ero fuori di me”. Il femminicidio è qualcosa di sistemico, non c’è tempo, età, classe sociale, religione, nazionalità. Ci sono poi vittime meritevoli e non, a quest’ultime non appartengono trans, prostitute, purtroppo tutto ciò lo ritroviamo non solo nei titoli di giornali e tg, ma anche nelle aule di tribunale. Il femminicidio non è malato ma è il figlio sano del patriarcato. Il linguaggio, le parole sono fondamentali. Se la lingua non nomina le donne, loro scompaiono, pertanto rifiuto il fatto che la premier Meloni si faccia chiamare il Presidente, lei depotenzia il femminismo e non aiuta certamente le donne, anzi le danneggia. Stesso discorso per quanto concerne il togliere autorevolezza e anche autorità quando nello scrivere il cognome per le donne si usa l’articolo femminile, nella fattispecie la Meloni, non si è mai sentito o letto il Salvini. Si svilisce pure il valore di un essere femminile quando la si considera ed etichetta come moglie di, madre, figlia, compagna di…in genere di uomini potenti e famosi, come se non fosse un’entità autonoma, non avesse identità e personalità”.
La parte finale del talk è stata dedicata da Siviero ai femminismi, perché in effetti non è corretto parlare di femminismo, in quanto vi sono stati e vi sono diversi tipi di femminismo, a cominciare dalle prime donne imperatrici e regine della storia, dalle suffraggette emancipazioniste durante la rivoluzione francese, poi nell’Ottocento, nel secolo scorso, la seconda ondata che rivendicava la libertà del proprio corpo e sessualità, la terza ondata in cui il soggetto femminile crea multipli, l’intersezionalità dell’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw . La quarta ripresa di un movimento politico e di massa. Siviero a tale proposito cita “Non una di meno” in Italia, e afferma che finalmente le donne sono tornate in piazza a manifestare, in Argentina, adesso in Iran con il bellissimo messaggio:” Donna Vita Libertà”. Le abbiamo in un intervento (il talk era anche interazione con il pubblico, gli astanti potevano porre domande alle bravissime e competenti ideatrici del talk) rammentato il Black feminism (che denuncia xenofobia ed eurocentrismo) soprattutto in Africa e Usa; Alice Walker, l’autrice del celeberrimo “Il colore viola” che aveva coniato il termine Womanism; la carismatica attivista del Black Power, la femminista afroamericana “Flo”, Floyrence Kennedy; e Wangari Maathai (deceduta nel 2011), in Kenya, ambientalista, attivista per i diritti delle donne, e delle minoranze, fondatrice del Green Belt Movement, la prima donna africana (nel 2004) a essere insignita del Premio Nobel per la pace grazie al suo “contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia, della pace”. Giulia Siviero ha molto apprezzato ciò, e ha rimarcato l’importanza di tale femminismo e dei movimenti black. Altrettanto importante è ricordarsi e ricordare che occorre cambiare questa cultura misogina e farlo fin dalla nascita di una figlia, di un figlio, dalle scuole primarie, e che la donna non deve essere ricordata soltanto nel giorno della Festa Internazionale della Donna, l’ 8 marzo, o festeggiata per la Festa della mamma, della nonna, e che manifestare si può, si deve, donne, uomini, comunità LGBT, tutti insieme, non soltanto il 25 novembre, data designata e istituita (nel 1999) dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in qualità di Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in memoria e tributo alle tre sorelle Mirabal, Patria, Minerva, Marìa Teresa, deportate, violentate e uccise a bastonate, il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana.