Agli inizi del 1981 Massimo Troisi è ancora un giovane comico, ventotto anni precisi. Uno di quelli che si è fatto le ossa nel vero cabaret, una maschera nuova che, seppur agli esordi, ha conquistato le platee (e le poltrone) di tutta Italia. Un predestinato. Unico, indomabile.
È il 1981, febbraio probabilmente, e Massimo Troisi non ha ancora portato al cinema il suo primo capolavoro Ricomincio da tre. Non ha ancora né spalle forti né produzioni sommesse: il comico di San Giorgio a Cremano ha ancora tanto da perdere, forse tutto.
È il 1981, febbraio probabilmente, e Massimo Troisi non ha ancora portato al cinema il suo primo capolavoro Ricomincio da tre. Non ha ancora né spalle forti né produzioni sommesse: il comico di San Giorgio a Cremano ha ancora tanto da perdere, forse tutto.
Quale miglior vetrina se non un’esibizione tra la televisione che conta, quella in prima serata, quella addirittura in eurovisione: il Festival di Sanremo! Massimo accetta di fare parte dello staff del festival della canzone italiana: prepara con cura i suoi monologhi, entusiasta di poter condividere con milioni di persone la sua verve napoletana sul palco dell’Ariston.
Ma sopprimere, denigrare e infangare la genialità altrui è patrimonio nazionale in un’Italia che rinchiude Rino Gaetano nella trappola del no sense e tappa la bocca alla satira sinistroide. Ed allora qualcuno dall’alto dei cieli sanremesi vieta al più estroso comico impressionista della storia di tinteggiare gli spettatori con freddure afatiche ed imponenti; un fido burattinaio decide, dunque, di imbrattare un linguaggio tanto scomposto quanto arguto (e comprensivo!) con l’unica certezza di evitare che si mostri al fruitore un panorama italiano bieco, grigio ed insolente. Sì: la comicità è scomoda. Lo è sempre stata fin dall’antichità, non lo scopre di certo il sottoscritto. Ed è scomodo sguinzagliare un fuoriclasse come Troisi su un vasto palcoscenico tenendo in cinica considerazione le sue doti da sommo oratore. È scomodo durante una perenne crisi politica, sociale e religiosa; ed è indubbiamente scomoda la questione meridionale ed i temi ad essa annessi: terremoto, disoccupazione ed indifferenza cronica.
Chiaro, è di mia convinzione che il 1981 possa sembrare ieri se si volesse scansionare a dovere l’Italia del terzo millennio, una nazione alla deriva in cui la libertas è stata democraticamente scalzata dalla libertà.
Ma la genialità degli artisti sta nel giocare d’anticipo, nel percepire l’impercepibile. Troisi non sarà un lembo di quel Festival di Sanremo. Non sarà parte di quell’ingranaggio dittatoriale che l’ha indotto a scegliere tra Pascoli e Carducci (parafrasando le sue sagaci parole). Massimo Troisi si tira indietro forse consapevole delle sue doti e del successo che gli avrebbe regalato Ricomicio da tre, un film accademicamente acerbo, tuttavia genuino, solare, suo. Il comico de La Smorfia si strappa i fili da dosso: con la sfrontatezza dei giovani e la professionalità degli adulti. Lo fa con garbo, intelligenza, ovviamente con la dignità dei grandi.
Quanto ci manca Massimo Troisi? Quanto ci manca una figura tanto egregia? E no, no!, non sarà una gelida fiction televisiva a ridarcelo indietro. Bensì la volontà di ricordarlo con orgoglio in quanto essere essenziale, artista al centro di tutti i poli emozionali, meridionale e universale per natura. Maestro anche nel tirarsi indietro, profondamente satirico seppur assente, saggio nell’afferrare il rischio per la coda. Pasoliniano al di là delle nuvole dei capricci all’italiana.