L’export agroalimentare italiano vola alto, infrange e supera la soglia dei 50 miliardi di euro, segnando il record storico, ma deve fare i conti con l’Italian Sounding che ne dimezza la portata. L’annoso fenomeno legato a prodotti alimentari che, seppure non siano realizzati in Italia, evocano denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi del Belpaese, è un oggettivo danno per lo sviluppo delle esportazioni nazionali.
Una questione analizzata in profondità durante la sesta edizione del Forum “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni” organizzato a Bormio da The European House – Ambrosetti.
La due giorni di lavori di Bormio è stata l’occasione per presentare la ricerca “Italian Sounding: quanto vale e quali opportunità per le aziende agroalimentari italiane” che, se da una parte ha quantificato l’impatto economico di questo “business parallelo”, dall’altra ha suggerito un vademecum di azioni e provvedimenti da adottare per contrastare il fenomeno.
UN RECORD CHE NON CANCELLA LE CRITICITÀ
Le vendite all’estero di prodotti ottenuti dalla filiera agroalimentare hanno registrato nel 2021 un giro di affari mai così alto nella storia e pari a 50,1 miliardi di euro, segnando una crescita media nell’ultimo decennio del 5,5% e chiudendo la stagione con un saldo positivo di 3,3 miliardi di euro. Una performance nella quale spicca nelle vendite all’estero di pomodori pelati e di pasta il primato del nostro Paese, che è anche il primo produttore (e secondo esportatore) di vino a livello mondiale.
Nonostante le cifre mai raggiunte prima, emergono fattori di criticità che il nostro sistema deve fronteggiare. Pur contando su un ricco paniere di proposte enogastronomiche, l’Italia si deve accontentare di un quinto posto nel ranking dei paesi europei esportatori di prodotti agroalimentari, scivolando in sesta posizione tra i 10 top exporter per incidenza delle esportazioni agroalimentari sul totale dell’export nazionale.
Tra le criticità alla base di questo ritardo evidenziate da The European House – Ambrosetti e Assocamerestero, la forte dipendenza del nostro Paese da alcune materie prime agricole e un contesto imprenditoriale caratterizzato da una elevata frammentazione di piccole aziende, che oggi sono il 92,8% del totale e generano solo il 13,2% dei ricavi globali.
ITALIAN SOUNDING, LA PAROLA AI RETAILER STRANIERI
Ma è il fenomeno dell’Italian Sounding il fattore che indebolisce fortemente il posizionamento estero dei prodotti italiani. Per indicarne la reale ricaduta in termini economici, per la prima volta The European House Ambrosetti e Assocamerestero hanno elaborato un modello scientifico per quantificare il valore dell’Italian Sounding.
Partendo da una survey che ha coinvolto oltre 250 retailer internazionali della GDO di 10 Paesi diversi in cui c’è una maggiore diffusione a scaffale di falsi prodotti italiani, sono state poste sotto la lente le 11 referenze più colpite del Made in Italy agroalimentare. L’indagine ha adottato una metodologia basata su due coefficienti: uno in grado di calcolare la presenza sugli scaffali dei supermercati di prodotti del vero italiano, l’altro, di scontare l’effetto prezzo, vale a dire depurare il risultato dalla quota di consumatori che scelgono referenze non autentiche italiane attirati dalla convenienza.
COSA MOSTRA LA ‘PRESENZA A SCAFFALE’: DOMINA L’ITALIAN FAKE FOOD
Lo studio ha innanzitutto mostrato come in alcuni Paesi la quota di referenze Italian Sounding nei punti vendita della grande distribuzione sia più marcata. È il caso, in primis, del Giappone (70,9%), seguito a brevissima distanza da Brasile (70,5%), mentre in Europa il dato maggiore è stato riscontrato in Germania (67,9%).
A livello di prodotto, i più ‘imitati’ sono ragù (61,4%), parmigiano (61,0%) e aceto balsamico (60,5%). Se si addiziona quindi il valore di Italian Sounding su tutti i prodotti alimentari monitorati dalla survey nei 10 Paesi, si stima un fatturato di 10,4 miliardi di euro, il 58% in più rispetto a quanto generano complessivamente gli stessi 11 prodotti ‘veramente’ italiani. Partendo da questi risultati e correlandoli con il valore dell’export di tali referenze, si ottiene un moltiplicatore dell’Italian Sounding pari a 1,58 che, applicato su larga scala internazionale, fa emergere come questo fenomeno da solo possa giungere a valere 79,2 miliardi di euro.
Sommando, quindi, questa cifra al dato effettivo delle esportazioni, l’Italia idealmente incasserebbe dal commercio oltreconfine dei suoi prodotti agroalimentari ben 129,3 miliardi di euro.
COSA MOSTRA L’EFFETTO PREZZO: BISOGNA CONVINCERE 3 CONSUMATORI SU 10
Più che la certificazione, conta lo scontrino in cassa. La ricerca, infatti, evidenzia come, in 3 casi su 10, il consumatore straniero si orienta su una tipicità gastronomica italiana quando questa prevede una spesa più bassa, piuttosto che porre come prioritaria la reale garanzia di provenienza territoriale del prodotto acquistato. Seguendo questa logica, il fenomeno dell’Italian Sounding ammonterebbe a 6,8 miliardi di euro nel cluster dei dieci paesi di riferimento sugli 11 prodotti analizzati, ovvero il 3% in più rispetto al valore concreto dell’export italiano, da cui si ottiene un moltiplicatore di 1,03. Riparametrando il modello sull’intero valore dell’export agroalimentare nel mondo e depurando l’Italian Sounding da tale effetto prezzo, si arriverebbe a quantificare il fenomeno per un valore di 51,6 miliardi di euro che, sommato al dato reale di export, permetterebbe all’Italia di generare all’estero con i suoi prodotti un giro di affari doppio e superiore ai 100 miliardi di euro.
SUPERARE IL PROBLEMA: ECCO LE LINEE GUIDA
Completata la ricerca e mostrato come il fenomeno dell’Italian Sounding colpisca duramente l’export nostrano, The European House – Ambrosetti e Assocamerestero, insieme alla rete di Camere di Commercio Italiane all’Estero, hanno voluto fornire agli stakeholders italiani della filiera agroalimentare possibili strumenti e azioni per cercare di superare questa criticità o quanto meno ridurne l’impatto.
IL MANIFESTO PER IL CONTRASTO ALL’ITALIAN SOUNDING
1) Favorire la consapevolezza del consumatore straniero verso le valenze distintive del Made in Italy agroalimentare. Un obiettivo che si può ottenere promuovendo azioni di marketing mirate, creando un logo F&B del Made in Italy, organizzando fiere, allestendo corner di prodotti italiani nei punti vendita della GDO all’estero. In parallelo, diventerebbe strategico puntare su attività di educazione del consumatore favorendo una corretta lettura delle etichette, coinvolgendo studenti stranieri con corsi di formazione in Italia, alimentando la sinergia con il settore turistico.
2) Agevolazioni fiscali con nuovi accordi di libero scambio UE-Paesi Internazionali e creare accordi bilaterali più favorevoli per le imprese agroalimentari
3) Combattere la comunicazione fallace appellandosi a politiche e direttive di tutela al Made in Italy, ma anche stabilire clausole che vietino l’evocazione dell’italianità in accordi di libero scambio
4) Strutturare una rete comune di attori istituzionali all’estero e favorire un dialogo con le istituzioni locali per sensibilizzare la consapevolezza politica verso il fenomeno
5) Favorire il consolidamento delle imprese F&B italiane, generare una rete d’imprese del settore, pianificare strategie ad hoc nei vari paesi, migliorare la competenza manageriale
6) Sfruttare gli ‘ambasciatori’ del Made in Italy presenti all’estero riunendo associazioni di ristoranti, agevolando un sistema culinario che fonde dieta mediterranea e cucina locale, delineare un canale privilegiato con le comunità di emigrati italiani
7) Dare impulso alla tracciabilità sfruttando la tecnologia di blockchain e smart labeling e, in generale, contribuire a dare supporto tecnologico alle PMI italiane del F&B.
Il testo integrale del rapporto è disponibile qui. (aise)