di Federico Scatamburlo
Non ci stancheremo mai di assistere a una delle più celebri opere di Giuseppe Verdi, con la protagonista, Violetta, eroina che possiamo facilmente identificare anche nei nostri giorni, e che si dichiara “Sempre libera”, ma che suo malgrado si ritrova poi invece schiava degli eventi e dei sentimenti. È la seconda volta che vediamo questa edizione, e dobbiamo ammettere che, per quanto tradizionalisti si possa essere, la regia di Carsen, con le scene e i costumi di Patrick Kinmonth, in seconda analisi colpisce i sentimenti, con questa denuncia di vizi e mali che sono così attuali, oggi come allora. La figura della prostituta che non si ritiene adeguata a ricevere l’amore di un cavaliere per bene, incarna il binomio corpo-denaro (quest’ultimo è onnipresente in grandi quantità in tutte le scene), ed è ribadita senza falsi pudori in tutta l’opera. Il regista è attento a ogni piccolo dettaglio e trasmette un messaggio con qualsiasi elemento si trovi in scena, per quanto discutibili possano essere alcune idee. Significativa, per esempio, la mancanza dello specchio in cui la protagonista si osserva e declama “Oh, come son mutata!” prendendo atto della malattia che sta avanzando inesorabile.
Stessa edizione dunque in questo 12 giugno 2016, ma cast diverso da quello cui abbiamo assistito la prima volta, l’8 aprile 2016 (vedi articolo del 14 aprile): anche qui una bellissima Violetta quella di Irina Dubrovskaya, giovane ma promettentissimo soprano, bravissima nelle colorature, con potenti sovracuti e bei filati anche se un po’ prudenti; non molto brillante nel registro grave, risultato un po’ debole, e che avrebbe necessitato di maggior corpo, ma ciò sicuramente dovuto a qualche problema di salute o alle corde vocali, dato che non avevamo riscontrato questa mancanza, anzi, nella performance della Sonnambula al Filarmonico di Verona il 24 aprile.
Buona presenza scenica per Alfredo, qui interpretato da Fabrizio Paesano, che ha dimostrato una voce con un gradevole colore e intonazione, tuttavia con insufficiente dimensione: nei duetti con la protagonista è risultato spesso coperto dalla stessa.
Giuseppe Altomare è il padre di Alfredo, Giorgio Germont: esordio in scena prepotente, quasi esagerato, ha poi trovato equilibri perfetti, con la sua voce da basso bellissima, ma potente e con elasticità ammirevoli. Bellissimo il duetto con Violetta, perfetto nel suo “Piangi” che spesso viene un po’ stonato.
Il resto del cast identico a quello della precedente edizione già vista: Elisabetta Martorana (Flora Bervoix), Sabrina Vianello (Annina), Iorio Zennaro (Gastone), Armando Gabba, (Il barone Douphol), Matteo Ferrara (Il marchese d’Obigny), per i quali confermiamo interpretazioni buone anche se non particolarmente avvincenti.
La bacchetta è stata in mano a Marco Paladin: pur infondendo all’esecuzione quella grinta che richiede quest’opera e che la rende così affascinante, la direzione è stata ottima con tempi e volumi sempre ben calibrati, precisi e a favore dei cantanti che non sono mai stati sovrastati come spesso accade.
Coro dell’Orchestra del Teatro La Fenice come sempre a proprio agio, con le sue mille sfumature e colori perfetti in tutta l’opera: degne di nota le esecuzioni nella decima e undicesima scena “Noi siamo zingarelle…Di Madride noi siam mattatori”.
Ottime scelte dunque ancora una volta quelle effettuate dal Teatro la Fenice: inaspettata ma meritata la standing ovation al termine della rappresentazione, tributata da un pubblico eterogeneo formato da tanti turisti ma evidentemente competenti, all’inizio un po’ freddini ma poi riscaldati dall’entusiasmo e dalla professionalità di tutti questi artisti a tutto tondo che ci fanno tanto amare questa difficile arte.