Alto, magro, dall’aria vagamente ascetica, dà subito l’idea del “saggio”. È considerato il più grande poeta italiano vivente. Negli anni ’30 ha collaborato alle più importanti riviste di avanguardia letteraria. Oltre che prolifico poeta, Luzi ha scritto parecchi saggi sulla poesia. Ha avuto, nel corso della sua lunga vita, numerosi riconoscimenti alla sua arte. Nell’anno 1986 ha ottenuto il Premio di poesia “Eugenio Montale”.
Lei ha visto molte cose nella sua vita: che bilancio può fare, alle soglie del Duemila, dello scorso secolo?
È un secolo che ha creato molte illusioni ed ha alimentato tante speranze che hanno sonstanziato vite, esistenze umane. Molti sono vissuti pienamente, intensamente, in nome di certe cose che oggi sembrano smentite. Ma anche su questo bisognerà fare i conti in altro momento, penso, perché certe cose che vengono oggi colpite dal disinganno generale hanno poi, probabilmente, un fondamento che è obliterato e per questo sarà spazzato via. Comunque, è stato un secolo dai drammi più spaventosi, intrecciati con aperture della mente umana esaltanti, se vuole, nel campo della scienza, della speculazione. Sono crollate certezze ma si sono ampliate le richieste dell’uomo.
Cosa prevede per il futuro ?
Spero molto che la richiesta di pace che ormai è diventata universale, attraversa tutti i sistemi, le frontiere, eccetera, ad un certo punto diventi la condizione indispensabile agli uomini dei decenni futuri. Io credo allo spostarsi dell’asse delle passioni umane, dall’avere all’essere. Ci sono segni, gli ambientalisti per esempio, che presi di per sé non sono un granché, anzi qualche volta sono poco consistenti, però effettivamente dicono che il mondo è sazio di certe negatività.
Il fatto che sia crollato il mito del comunismo in cui miliardi di persone hanno creduto, creerà ora un terribile smarrimento, non trova ?
Come dicevo, la crisi è molto forte, è chiaro. È come se venisse a mancare una religione, una religione in cui si è giurato, anche se era una religione laica. Crollato il mito, è crollata anche la sua incarnazione più temporanea, provvisoria; non, però, la sua ricchezza di analisi. Io non sono mai stato definitivamente un comunista, però non ho mai potuto prescindere da questo: anche chi non lo è stato è rimasto orientato dal comunismo. È una brutta stagione, questa, ma io non credo che sia finito il tema della giustizia, della equità, una correlazione fra gli uomini che non sia da soggetto ma da eguali. Anche se l’uguaglianza non sarà mai materiale, ma morale sì.
Il mondo della scuola e specificatamente quello dell’università, secondo lei, cosa dovrebbe fare per preparare i giovani, non soltanto dal punto di vista tecnico, per immettersi in una società in modo più incisivo?
L’università è oppressa da problemi materiali ed organizzativi enormi: non le rimane lo spazio, che invece sarebbe tanto utile, per incrementare la socialità tra gli studenti e la città, come per esempio accade in altri paesi, specialmente anglosassoni. Altro, chi è in una università non è in un ghetto: è dentro la città, la quale si riconosce nella sua università. La società americana è più caotica, più tumultuante, ma anche là quello che c’è di vivo nella società americana è proprio l’università. Loro hanno i mezzi, naturalmente, però devo dire che le autorità là favoriscono.
Hanno anche più mezzi ed un’altra tradizione, però…
Questa tradizione è potuta nascere anche perché i problemi materiali sono stati risolti. Ci sono università americane ricchissime, vere e proprie potenze economiche, che possono permettersi tutto.
Hanno anche un’altra apertura mentale…
Sì, ma tutto questo si è creato un po’ così, sono meno burocratici; hanno una mentalità liberale. Stanford, per esempio, è una università aperta a pochi allievi che possono pagarsi una retta salatissima, però ha molte attività che permettono a quelli più poveri di partecipare. Ne risulta una società liberale ma non selvaggia, piena di risorse, che non accetterà mai l’assistenza. La mentalità assistenziale in America non esiste; c’è una mentalità pionieristica, fondata sull’intraprendenza individuale.
Lei pensa allora che una gestione un po’ meno statale, di tipo manageriale, sarebbe meglio?
Sarebbe meglio, in teoria, ma i nostri capitalisti non fanno nulla per nulla. In fondo, i ragazzi della Pantera non avevano tutti i torti, no?
Molti temono che il capitalista prenda piede e determini le scelte.
Certo, il dilemma è questo: si deve rinunziare o cercare di migliorare? Perché qui. Il correttivo esiste: è quello che i filosofi illuministi chiamavano “il miglioramento”. È lo spirito della filosofia illuminista. Si deve cercare, quindi, non di buttare all’aria lo stato, ma di farlo funzionare meglio. L’autonomia non vuol dire arrendersi ad Agnelli, a Berlusconi o ad altri. Certe università avevano il senso di dirigere il proprio studio quando erano ancora a misura d’uomo. Il problema invece è che con 180.000 iscritti il controllo diventa impossibile. Questo è il problema. In Francia hanno già fatto qualcosa in meglio: lì lo Stato è molto Stato. Questo dovremmo ottenere.
[La foto della testata e` di Marilena Dossena (1997)]