Di Federico Scatamburlo
Una perla rarissima l’opera Il castello di Kenilworth, di Gaetano Donizetti, tanto che dal 1989 non compariva nel cartellone di un teatro e che, grazie a una felice intuizione di Francesco Micheli, direttore artistico della Fondazione Teatro Donizetti, ha degnamente concluso il Festival Donizettiano svoltosi nel mese di Novembre 2018 a Bergamo.
Tratta dal romanzo di Walter Scott, quest’opera è antesignana, quasi l’antefatto delle vicende di Elisabetta I d’Inghilterra, prima di arrivare al culmine della passione di Donizetti per re, regine e intrighi di corte con le fortunate e molto più sontuose Maria Stuarda e Roberto Devereux.
La narrazione si ispira a fatti realmente accaduti. La storia ci narra, in sintesi, della Regina Elisabetta, innamorata di Robert Dudley, il quale però è sposato con Amy Robsart (Amelia nell’opera). Dudley fu sempre il favorito della Regina, al punto che, dopo la morte violenta della Robsart, forse causata dallo stesso marito, gli donò il titolo di Conte di Leicester, ma non arrivando mai a sposarlo.
Nella finzione Leicester è invece un uomo innamorato della moglie ma talmente assetato dal potere al punto di ripudiarla e rinchiuderla per apparire libero agli occhi della sovrana, e aiutato in questo intento dal suo scudiero Warney che pure brama le grazie di Amelia. Questa riesce tuttavia a liberarsi e a incontrare in maniera fortuita la Regina, alla quale deve confessare il tradimento di Leicester. La sovrana inizialmente è infuriata e medita vendetta totale, ma poi si ravvede e, per dimostrare la sua magnanimità, perdona Leicestere Warney, allontanando però tutti da corte: il suo amato, la moglie sua rivale e tutto il loro entourage.
Insomma ancora una volta troviamo tanti elementi di grande attualità: una donna di potere che insegue l’amore di un uomo pure assetato di potere, una donna tradita che cerca ingenuamente di salvare il matrimonio, un uomo senza scrupoli che cerca di impossessarsi di una donna altrui, e tanti altri elementi che si intrecciano in una storia apparentemente semplice ma in realtà molto complessa, dove i destini di tante anime si incontrano in grandi passioni tutte legate tra loro pur essendo contemporaneamente molto diverse, e ci si rende conto che in fondo tutti sono rinchiusi, tutti sono prigionieri di sé stessi e non ci saranno né vincitori né vinti.
Per raccontare tutto questo Donizetti crea una sorta di danza vocale a coppie tra i vari protagonisti che interagiscono infatti con duetti continui. Perfino l’unico, bellissimo concertato a quattro previsto in quest’opera nasce dal duetto tra Elisabetta ed Amelia nel giardino a cui si aggiungono poi Leicester e Warney.
Sul fronte canoro, l’opera risente delle influenze rossiniane ancora molto presenti nell’epoca in cui è stata scritta, infatti tutti gli artisti sono coinvolti in arie spinte e dense di agilità. Per questo motivo il cast deve essere di caratura, come infatti era in questa recita, per rendere appieno la maestosità dei difficili cantabili.
Jessica Pratt ha interpretato Elisabetta: potente, volubile, capricciosa, ma frivola e sentimentale allo stesso tempo. Con la sua ben nota abile tecnica vocale, nessuna difficoltà è apparentemente emersa nella sua esecuzione. Con acuti svettanti tenuti a lungo, mezze voci e note gravi alternate a filati improvvisi e agilità magistrali, insieme a una capacità interpretativa attoriale veramente encomiabile ha conferito un’aura degnamente regale al suo personaggio. Prevedibili e meritatissime le ovazioni per Jessica alla fine della recita.
Nella parte di Amelia una scintillante Carmela Remigio, che ha curato nei minimi dettagli questo personaggio. Con la sua musicalità che ormai ben conosciamo, nella rivale della sovrana ha ritratto in modo assolutamente persuasivo una donna dolente ma allo stesso tempo forte e ribelle. Apice della performance l’aria del secondo atto “Par che mi dica”, dove riesce a calarsi in una interpretazione talmente meditativa, così profonda e armonica da lasciare il pubblico al termine dell’aria per qualche secondo senza fiato, prima di esplodere in diversi minuti di applausi e ovazioni.
In contrasto ai due personaggi femminili due tenori, ma con caratteristiche completamente diverse tra di loro.
Leicester è delineato da Donizetti, nonostante la dominante sete di potere, come un uomo piuttosto mediocre, quasi scialbo, incapace di perseguire i propri scopi senza aiuti altrui. Il tutto ben calibrato da Francisco Brito, tenore di origine argentina, dotato di un particolare colore di voce, molto chiaro, che inizialmente ci aveva lasciati un po’ perplessi, ma poi ci ha pienamente convinto. E’ riuscito infatti a disimpegnarsi molto bene in una parte particolarmente difficile essendo previste molte agilità (nelle quali infatti abbiamo purtroppo percepito qualche sforzo).
Pur nella stessa tipologia di voce il ruolo di Warney è totalmente contrapposto. Ancora una volta Stefan Pop, che ormai conosciamo bene, è riuscito a stupirci con effetti speciali: abituati a vederlo e sentirlo più che altro in parti romantiche, perfettamente calato nella parte si è qui trasformato in un personaggio malvagio, duro, arcigno. Come sempre acuti luminosi e ben puntati, dizione perfetta, fraseggio e interpretazione senza alcuna sbavatura, ma quello che ci ha spiazzato è l’uso del proprio strumento fonatorio con duttilità in tante incursioni baritonali, sicuro e preciso come non mai. Complimenti.
All’altezza anche il resto del cast: Dario Russo è un notevole Lambourne (servitore di Warney), basso scuro, tenebroso e molto convincente, e Federica Vitali apprezzabile Fanny (damigella di Amelia).
Partecipazione incisiva e lodevole del Coro Donizetti Opera, diretto da Fabio Tartari.
Musicalmente Il Castello di Kenilworth risponde a delle necessità precise da parte dell’autore di scandire bene le varie fasi dell’opera. L’orchestrazione è ricchissima di armonici, e di melodie che identificano i singoli personaggi e i loro stati d’animo. Ci ha colpito la scelta di utilizzare la “glassarmonica” nell’aria di Amelia nel secondo atto, sottolineando gli stati d’animo del personaggio in contrapposizione alla linea di canto, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare (come per esempio nella Lucia di Lammermoor).
Riccardo Frizza asseconda fedelmente la partitura con ritmo serrato ma di ottimo gusto, dirigendo non solo un’orchestra sicura e precisa, dalle sonorità volteggianti in ampie gamme di colori, ma anche tutti gli artisti sul palco, dando loro i giusti spazi per i fiati e per le variazioni, senza mai alcuno scollamento tra buca e palco.
La regia di Maria Pilar Pérez Aspa e le scene di Angelo Sala inquadrano il Castello di Kenilworth, dove si dipana appunto la storia, in un semplicissimo piano a riquadri inclinato, che, con pochissimi elementi scenici, si trasforma ora nelle sale del palazzo ora nei giardini e nelle prigioni, il tutto aiutato naturalmente da efficaci effetti di luci, curati da Fiammetta Baldiserri. A prima vista forse troppo essenziale questa scenografia, ma proprio grazie a questo minimalismo si è potuto godere appieno delle prodezze canore e musicali di un’opera che letteralmente corre, dall’inizio alla fine. I costumi di Ursula Patzak, anche se non così tanto sontuosi come erano all’epoca, sono stati tuttavia ben realizzati e perfettamente collocati nell’epoca di riferimento.
Grande consenso di pubblico (teatro tutto esaurito), con ovazioni finali.
La recensione si riferisce alla recita di domenica 2 dicembre 2018.
GAETANO DONIZETTI: Il castello di Kenilworth
Melodramma in 3 atti su libretto di Leone Andrea Tottola da Leicester, ou Le château de Kenilworth di Eugène Scribe
Personaggi:
Elisabetta, regina d’Inghilterra (soprano)
Alberto Dudley, conte di Leicester (tenore)
Amelia Rosbart, sua segreta consorte (soprano)
Warney, scudiero del conte (baritono – nella prima versione)
Lambourne (basso)
Fanny (mezzosoprano)
cavalieri, dame, domestici, guardie, soldati, popolo (coro)
Luogo: Inghilterra al Castello di Kenilworth
Epoca: Durante il regno di Elisabetta I
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 6 luglio 1829