Quando ho ricevuto da Tiziano Thomas Dossena il libro, di cui egli è anche curatore, ” Federico Tosti − poeta antiregime − editore Idea Press, mi sono ritrovata di fronte a un volume nel quale si può riscontrare una cospicua produzione scritta, in prosa e in poesia e corredato da una attenta documentazione fotografica.
Dossena, per la composizione del libro, ha dovuto organizzare la mole di materiale, fornito da Fiorella e Adriana, figlie di Tosti, compiendo, inoltre, personalmente un’indagine conoscitiva degli avvenimenti della vita del poeta.
Il curatore, struttura, inoltre, in paragrafi, gli scritti di Tosti, introducendoli ogni volta con una premessa storica, atta a contestualizzare l’ opera del Tosti stesso.
I testi in prosa e in poesia cadenzano il ritmo degli anni del ventennio.
Quanto emerge dalla lettura del libro è indicativo di un’ anima “bella”, limpida; è la testimonianza di un uomo dalla statura morale alta, coerente alle sue scelte avverse al fascismo, dichiarate con verità, decisione, sarcasmo, ironia.
Lettere, racconti, poesie, sonetti sono per il lettore occasione di riflessione, un riferimento a un modello di pensiero e atteggiamento, un senso di appartenenza a una comunità offesa, oltraggiata, a cui lo scrittore dà voce, in una lingua dialettale − il suo romanesco − ( quando si tratta dei testi poetici) che lo appaia in un terreno comune di borgata, al suo popolo.
Per avere un quadro organico della vita e della figura artistica di Tosti, penso sia opportuno partire dalla sua produzione narrativa. Essa palesa quanto ripreso o portato in parallelo da quella poetica: il pensiero civico politico di un uomo “libero”.
Prosa e poesia viaggiano specularmente nel loro atto di denuncia e di opposizione al regime e ai personaggi artefici e mallevadori di quel regime.
Se prendiamo ad esempio Le Lettere, facendo riferimento alla prima, inviata da Tosti all’amica Tilde il 20 gennaio 1945, leggiamo come, senza mezzi termini, Tosti espliciti il proprio rifiuto a stringere la mano a un collega di lavoro dell’amica al momento della presentazione. Lo scrittore non intende giustificarsi, anzi, più che mai sostenere le proprie ragioni. Come avrebbe potuto egli tendere la mano a un fascista convinto? Tutta la lettera vibra di sentimenti patriottici, “Io odio con tutta la forza del mio spirito i mostri che hanno morso il seno della loro madre. Essi mi hanno sconvolto la vita…” dirà ad un certo punto Tosti. Il testo ha ricchi riferimenti storici, dall’illusorio episodio del 25 luglio, alla “resurrezione” del Duce e a quanto seguì fino alle Fosse Ardeatine, ed infine la morte dell’amico Sandro Maitardi − “Oh Maitardi sublime! Mio Sandro! Dolce fratello di poesia e d’ amore!”−; Maitardi, simbolo degli assassinati tutti, da quelli di Cefalonia, Rodi e Coo, a quelli della sua Italia, vittima dei soprusi, degli assassinii, delle mortificazioni, di tutto un popolo dal passato grande.
Vale la pena di suggerire al lettore di soffermarsi sulla lettera del 19 gennaio 1972, indirizzata alla figlia Fiorella, residente negli USA, in cui Tosti afferma di avere subito il Fascismo. Dirà a un certo punto, parlando della situazione politica frammentata italiana, di gruppi neofascisti. Egli si augura di non assistere alla rinascita della dittatura. Dirà, infatti, “E io spero di andarmene al Creatore, prima di rivedere in giro quei mostri in camicia nera; e prima di essere obbligato, come nel passato, ad indossarla di nuovo”.
Appare chiaro il senso di autocondanna dello scrittore per non avere avuto sufficiente coraggio ad opporsi in modo conclamato al regime.
Il curatore Dossena porta qui a discolpa del Tosti una argomentazione ragionevole a sostegno della scelta dello scrittore. Dossena afferma che un atto di opposizione dichiarato avrebbe comportato la messa in pericolo della famiglia Tosti. Prudenza e non certo vigliaccheria di Tosti, volontà di proteggere moglie e figlie, lui che frequentava persone antiregime, (Gino Giacomini, repubblicano antifascista, Omero Cian, nome di battaglia partigiana ‘Maitardi’), che in gioventù aveva frequentazioni con Bergamini, direttore del “Giornale d’ Italia”, voce del liberalismo monarchico, lui spesso seguito dalla polizia politica, lui che di certo non riluceva per fedeltà al regime, che dichiarava spesso la sua avversione al fascismo nell’ azienda in cui lavorava.
Per di più il cognato, sindacalista comunista, “elemento sovversivo già segnalato alla polizia come pericoloso”, viveva con lui ed era spesso arrestato nel suo appartamento, e per poco non era finito alla Fosse Ardeatine (episodio raccontato dalla figlia Adriana).
Appare così chiara l’onestà intellettuale del “nostro”. A tale proposito si veda anche quanto riportato da Dossena a proposito di informazioni biografiche su Tosti (Mario Concezio Ranalli, nelle note biografiche inserite nel libro di Federico Tosti” I fiori del giardino” del 1987) a pagina 37 del libro.
Dei due racconti di Tosti riportati nel libro, desidero soffermarmi sul primo, ” In margine alla battaglia” del 1943.
Il testo porta la premessa della figlia di Tosti, Adriana, chiamata affettuosamente dal padre Drinetta che contestualizza la narrazione collocando gli eventi nell’anno in cui, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, l’esercito tedesco, risalendo la penisola, pose la sua linea difensiva (la linea fortificata Gustav) tra Roma e il mare Adriatico. Ci racconta, Adriana, come il padre, preoccupato per l’ evolversi della guerra, ormai incombente su Roma, volle portarla al sicuro dalla zia che viveva in un paesino di montagna. Ma anche qui la situazione non era sicura, sicché Tosti andò in bicicletta da Roma a L’Aquila a riprendersi la figlia e ciò tra mille pericoli nel viaggio di andata come in quello del ritorno.
Alla voce della figlia che filtra quanto accadde attraverso il ricordo, subentra la voce del padre − nel suo racconto − e l’ impressione avvertita dal lettore è quella di una parola pronunciata in diretta, senza il filtro della pagina.
La narrazione procede di pari passo tra eventi storici raccapriccianti e riflessioni tenere nei confronti della figlia. Al freddo intenso si alternano immagini di carri armati, cannoni, autocarri pieni di soldati, odori di carne putrefatta; l’ unico pensiero che dà conforto e convinzione al viaggio è camminare “verso una meta d’amore sorretto dalla speranza di giungere” a prendere la figlia.
La preoccupazione del padre per il pericolo incombente sulla “piccina” e sulla famiglia immergono il lettore spesso in uno stato d’ animo di coinvolgimento emotivo.
” Se un giorno anche noi dovessimo fuggire?… Come e dove ritroverò la mia creatura che ho mandato lontano?” dirà Tosti ad un certo punto.
Il racconto procede tra incontri rivelatori di una umanità capace ancora di parola di conforto (vedi l’ episodio della vecchia della piccola stazione ferroviaria bombardata); di solidarietà (come l’episodio dei due contadini che danno da mangiare alla bambina e le offrono la condivisione del proprio letto per la notte, non senza provvedere allo scrittore, lasciandolo al caldo del focolare); e ancora di un’ umanità offesa e incapace di reagire, sospesa tra l’ orrore della guerra e l’umiliazione (episodio della donna di un casolare chiusa dal marito in casa per gelosia). Visioni di morti, di esplosioni, di pericoli continuamente incombenti punteggiano tutta la testimonianza di Tosti.
Ma ciò che più resta di una storia vera come questa è l’amore di un padre per una figlia, amore sciolto nel suo essere rappresentato in un climax ascendente di stati d’animo. Nel viaggio in bicicletta, dove mette la bambina sul davanti come può, si aprono scenari di orrore e incredulità.
Paure, riflessioni, consapevolezza del proprio ruolo di educatore nel porsi di fronte alle domande della figlia con verità e delicatezza, restituiscono alla Storia la sua dimensione umana sottraendola allo scacco delle vicende bestiali di quegli anni.
La ricchissima produzione poetica di Tosti copre l’arco di anni tra il 1937 e il 1945.
Lo scenario su cui si snodano le composizioni rende palpabile il mondo degli oppressi, percepiti in una coralità di vita sospesa tra faticosa quotidianità, prevaricazioni, guerra, riflessioni e considerazioni di Federico Tosti.
A restituire vivezza e immediatezza ad eventi, personaggi, pensiero, ecco la scelta linguistica del dialetto romano, in cui lo scrittore trova la possibilità di dire, comunicare la propria intenzione comunicativa, scevra da sottintesi, da giri di parole; semmai Tosti ricorre spesso ad analogie, descrizioni, sintetizzando stati d’ animo, facendo risuonare da sé al lettore, con l’ uso della rima e con l’ ironia mordace, il suo grido di opposizione, che poi è anche porre in evidenza la dignità umiliata di un’ umanità consapevole e di una ignara dello stato di cattività in cui è precipitata.
Il libro ci presenta inizialmente poesie con strofe a numero non sempre uguale di versi.
Una sezione cospicua e posta alla fine del volume consiste nei Sonetti tratti dal libro “Storia nostra de ieri”.
Inizierò ora a soffermarmi su alcune poesie di Tosti particolarmente emblematiche per i riferimenti a personaggi e situazioni che hanno caratterizzato il periodo fascista.
Il testo “Monarca”, del 1943, è riferito alla fuga del re a Brindisi. Tosti addita l’uomo, Vittorio Emanuele III quale responsabile del destino di un’Italia lasciata allo sbando tra vuoto di potere, ripresa dello stesso da parte di Mussolini, sangue del popolo “martire e tradito” che sarà versato. Il re è definito dallo scrittore “vampiro, immondo, scellerato”, a sottolineare la mancanza totale di consapevolezza del ruolo che un sovrano dovrebbe avere e a rimarcare il cieco egoismo e la viltà della “piccola” persona quale egli è.
La poesia si snoda tra una terzina iniziale, due strofe centrali di cinque versi e una di sei versi finali.
Così pure nel testo “Er nano malefico”, emerge, come bene annota Dossena, la figura di un re nano, non tanto in riferimento all’altezza, pur piccola, quanto alla meschinità, alla bassezza morale della persona.
Le diciannove strofe risultano di lunghezza a maggioranza di sei versi, solo la prima è di cinque versi, a rima perlopiù baciata – e l’uso del vernacolo senz’altro predispone le ultime sillabe a “toccarsi” tra loro (nel caso si tratti di sestine, la seconda con la terza, la quinta con la sesta, mentre rimano la prima e la quarta).
Si potrebbe sintetizzare la lunga sequenza di versi in quattro blocchi in cui scorrono agli occhi del lettore le “imprese memorabili” di un uomo a cui Federico Tosti, stigmatizzando i lati peggiori dell’operato, volge uno sguardo e un giudizio impietosi.
Lo scrittore ci parla di un re che nega la libertà ai suoi sudditi, rinchiuso nel suo castello; di quest’ uomo ci vengono posti in evidenza la boria, l’ambizione e l’interesse a creare alleanze con Mussolini, da lui definito come ‘il Pagliaccio’ (“…dava ar Pajaccio piena carta bianca” e la Santa Chiesa che “concijava la fede con la panza/ e confermava co’ l’assoluzione/qualunque sia sopruso o malazione”). Del re Tosti tratteggia un quadro spregevole quando dice la sua incapacità di compiere un atto di riflessione a proposito della guerra: “…La guerra, in fondo,è n’avventura bella/ che bisogna tentà, dunque per cui/’Viva la guerra’ , si la guerra è bona,/ pe’ da sempre più lustro a la corona”.
Se da un lato possiamo reperire nel testo la figura di un personaggio – re malefico, dall’altra, e a controbilanciarla, troviamo la descrizione di un popolo indifeso e incapace di qualsiasi tipo di negoziazione. Si tratta di un popolo che si ritrova un bel giorno un re Imperatore, costretto a indossare una divisa, a marciare a passo romano, un popolo spogliato della propria dignità, impossibilitato ad esercitare un pensiero critico su tutto quanto stava accadendo.
Ci sono gli intoccabili, il re, Mussolini, l’alleato, e ci sono i sottomessi.
Ma le prepotenze dei forti, ci dice sempre tra l’ironico e il serio lo scrittore, sortiscono un effetto di rivolta tanto che“…li popoli aggrediti/sartorno tutti in piedi inviperiti/strillanno, Dio ne liberi, ar soccorzo!/Tanto che un centinaio di nazzioni/Misero tutte mano a li cannoni”.
Infine il re scappa, senza dignità, né preoccupazione di rimetterci la faccia di fronte alla nazione “Ma er ‘Vecchio Nano’ senza batter cijo/s’arrampicava p’arrimane a galla./ Ridotto a la funzione de ‘na palla/tramezzo a la burina e lo scompijo/ aprofittava de la confusione/pe’ sarvà la capoccia e la corona”.
Lo vediamo nell’ultima scena disarcionato, con la lenza a pescare in riva al mare. Chiaro il riferimento all’esilio della famiglia a fine guerra, dopo il referendum.
Leggere questi versi è come calarsi, in tempo reale, nella storia di una parte dello scorso secolo. Assistere inermi allo stravolgimento della propria esistenza, subire la guerra, viverne le conseguenze è l’operazione che sa fare con maestria Tosti con la sua parola tagliente e burlesca.
Il sonetto a rime alternata pone al centro del discorso il delicato ruolo dell’educatore che deve essere modello di rettitudine e rispetto, per le giovani generazioni. Tosti dà voce a ciò con la tecnica descrittiva di una situazione contraria al suo pensiero.
Egli sa con maestria portare sulla pagina il concetto di ruolo educativo dell’adulto. Nelle prime due quartine, infatti, dice che “Pe’ guadambiasse er diritto de sta ar monno/ e pe’ fa’ faccia a tanti prepotenti…/ è bene d’ arrota’ l’ ogne e li denti”.
Solo nelle ultime due terzine si rivela il motivo ispiratore del sonetto che dà spiegazione del titolo scelto per il testo: Li Balilla.Con la consueta capacità di immediatezza linguistica dimostrata nei suoi scritti in vernacolo,
Tosti dà prova di saper penetrare nella vita distorta, nelle sue molteplici sfaccettature, propria di quegli anni.
” Ma devi conveni’ che nun è bello/ da’ a li ragazzi certi insegnamenti!…/ Io Nun posso vede’ li ragazzini/ doprà er fucile o manovrà er cortello…”
Il tu con cui si rivolge a un pubblico volutamente non specificato rappresenta la coralità di voci che dissentivano da quel modo di educare i giovani. A questo proposito Dossena nella sua consueta introduzione alle pagine scritte di Tosti contestualizza il momento storico riportando queste parole “l’O.N.B.era finalizzata… all’ assistenza e all’ educazione fisica e morale della gioventù”.
Mettere in mano ai ragazzini un fucile o insegnare loro ad adoperare il coltello era un compito educativo che rientrava in un progetto espansionistico di regime e, pertanto, ogni possibile conseguenza di atti criminali diveniva comunque assolvibile in nome di una fedeltà a quella dittatura militare.
“‘Fascistizzare’ la società,” scrive Dossena nella pagina introduttiva allo scritto di Tosti, “a partire dai più giovani”.
Nel sonetto “Er pupo” (7-8 Settembre 1938) l’ apertura è quasi visione iddilliaca.
Un giardino, un pupetto “co’ gli occhioni fonni/ e li capelli ricci e bionni” sembrava più bello di un cherubino”.
Ma ecco che l’ equilibrio della scena viene rotto dall’ apparizione di qualcosa di anomalo con cui gioca il bambino: in mano egli teneva un moschetto.
Il contrasto tra la mano innocente del bambino e l’ arma a potenziale letale suscita nel poeta enorme impressione a misura di una punta di un pugnale nel petto.
“Io ciò er fucile e faccio er Capitano!/Lui strillava, e mirava prepotente/ a un nemico invisibile e lontano”.
A Tosti l’ espressione mimica e il tono della voce del piccolo dovettero apparire smisurati.
Concentrato nel ruolo di carnefice, il “cherubino” subiva il fascino di quanto doveva vedere, sentire intorno a se stesso, se in quel gioco mimico si identificava con l’uomo forte che può tutto perché ha uno strumento che annienta un ipotetico nemico.
L’interrogativo con cui chiude la terzina Tosti ruota attorno ai responsabili del traviamento delle anime candide e ignare dei bambini.
Ancora una volta lo scrittore dà prova di denuncia con parole dal passo deciso e tenero allo stesso tempo. Parole modulate in climax ascendente. Apertura e chiusura di sonetto si misurano come in una tenzone dove al cherubino si sostituisce Caino.
È davvero compito arduo saper scegliere nel libro preso in esame i sonetti che meglio inquadrino personaggi e situazioni di un’ epoca che, allontanandosi progressivamente, si opaca e poco riesce a dire alle giovani generazioni
Perciò mantenere viva la memoria di quello che fu l’Italia degli anni della dittatura è un preciso dovere di chi crede nei valori della democrazia
E non è retorica ribadirlo.
La testimonianza di Federico Tosti ci giunge davvero preziosa in un momento in cui l’ uomo europeo ha smarrito il senso del vivere sociale, il confine delle libertà individuali. Senza una bussola che l’orienti, egli cammina in un inciampo continuo. Quando ero bambina c’era chi, testimone diretto, mi raccontava gli anni dissennati del Paese. Ora, col passare dei decenni, ci rimangono le fonti scritte di fronte alle quali dovremmo accostarci pensando di entrare in un luogo sacro, un tempio che conserva le voci di tanti scomparsi e per i quali oggi non siamo più ostaggi della tirannia.
In sette strofe, composte da quattro quartine e tre terzine, riusciamo a reperire, attraverso la parola incisiva di Tosti, l’arrampicata politica e sociale del Duce.
Da socialista a “patriota”, Mussolini conquista il consenso di molti Italiani, sapendo egli dosare, alternandoli, nei discorsi pubblici voce urlata e corpo. L’obiettivo è il potere e per raggiungerlo si proclama nemico del comunismo, quello russo, che ha tolto la libertà e imbavagliato l’economia di libero mercato.
Le camicie rosse saranno lo spauracchio contro cui combattere. Questo motivo distrarrà soprattutto la classe medio-alta degli Italiani dal vero nemico alle porte: il fascismo. “E sputa sopra a la bandiera rossa…” dirà Tosti.
Da notare come il poeta dipinga il personaggio con tratti essenziali di penna “Fa er santo, ma cia’ er core da teppista!…/ E fa der male puro quanno sogna!…”
Circa “il cuore di teppista”, Dossena ne chiarisce il senso, riportando una conversazione del 1938 tra Mussolini e il genero Galeazzo Ciano.
Da essa trapela il disegno di prevaricare la monarchia appena possibile, una monarchia colpevole, secondo lui, di non avere mai agito in modo decisivo a sostegno del regime.
Mussolini si auspica un’accelerazione del cambio della guardia, grazie a un intervento della natura sulla vecchiaia del re. Un passaggio che sarebbe risultato così spontaneo da Principe sottoposto a vero Princeps.
Il punto di forza del Duce per inebetire la folla sono le parole: “Le butta fora a sacchi…a cariole”
Circa poi le disuguaglianze tra cittadini Tosti scrive: “Se c’ è chi magna troppo e chi nun magna,/ e geme e soffre che je frega a lui…”
A Mussolini non interessa la condizione del popolo, basta avere provveduto per sé; “der resto è un ‘sovversivo’ chi se lagna!…”
“Ammazzatelo! ” concluderà Tosti, “Che straccio de canaja”.
La capacità di stigmatizzare l’operato del Duce in strofe dà la misura di come la disciplina dell’endecasillabo, chiuso in sonetto, offra un argine a quanto vorrebbe esplicitare il pensiero dello scrittore, pensiero che pertanto deve “dire” come un lampo che squarci il cielo.
I sintagmi appaiono fiamme contorte, schegge che colpiscono il lettore attento a cogliere la sofferenza e la prepotenza disposte su due piatti di una bilancia perfettamente in equilibrio.
“Da vent’anni ce rubba e c’assassina/senz’ ombra de pietà! Senza rimorso!”
Le richieste del popolo hanno come risposta discorsi che mettono in luce come qualsiasi tipo di aiuto farebbero andare in rovina il Paese.
Nelle ultime due terzine, l’ occhio di Tosti passa da una premessa riflessiva a una scena descrittiva in cui scorrono immagini di padri in guerra, mentre i figli restano a casa in miseria.
Creperanno tutti quanti, ci dice lo scrittore.
“Ma il duce è bono! Cià lassati gli occhi/ pe’ poté piagne sopra le sventure/d’ Italia!… E la miseria e li pidocchi”.
Curiosando tra le composizioni poetiche di Tosti, mi soffermo su alcune che evidenziano in modo significativo i passaggi salienti della politica degli anni fascisti.
Attraverso una carrellata di sonetti, presi in considerazione, entrerò nel cuore di eventi che hanno prodotto conseguenze di grande sofferenza.
“Er discorso der federale” tratta delle leggi razziali promulgate dal Duce nel 1938.
L’apertura del Sonetto è costruita ad arte. Ci appare infatti Er federale che parla alla folla in modo ieratico, pare un profeta che usa argomenti forti a sostegno della sua tesi: “Er popolo più mejo è l’Italiano!”
Forti, intelligenti e belli, gli Italiani devono distinguersi dagli altri coabitanti del Paese che “so’ tutte pippe”. Perciò guai ai contatti.
Nel suo modo consueto di presentare su un piatto problemi seri in modo scanzonato, Tosti sa sviscerare con acutezza linguistica eventi terribili, crivellando le coscienze dei lettori per un risveglio.
Con la sua parola incisiva e tagliente, Tosti tratteggia “Li repubbrichini”, definiti “Teppa infame e farabbutta”; sono i fascisti in camicia nera “rifiuti de galera” che hanno cambiato denominazione ma sono sempre gli stessi. Sono l’ altra faccia di un popolo che assiste a un’Italia divisa, distrutta e per questo il poeta nutre sentimenti di avversione; egli difatti scrive ardo di sdegno, d’odio, de disprezzo”.
Come in fotografie viste tante volte, o come in un film che riproduce situazioni politiche e sociali del periodo fascista, nel sonetto “La retata” assistiamo all’ incombere di camion che improvvisi appaiono, catturano uomini e donne per portarli nei campi di concentramento.
Il poeta scrive “uno va a casa doppo na’ giornata/de stento, de fatica, triste e dura…/ ecco che casca dentro a la retata!” E viene deportato, messo a la tortura…sparisce!… E chi resta in casa non ha più notizie.”
“La visita dell’ alleato” è contestualizzata, come per altri scritti, da Dossena che ci chiarisce alcuni versi del sonetto. In visita in Italia nel 38, Hitler arrivò in una stazione Ostiense sistemata alla meno peggio per l’arrivo dell’alleato tedesco.
“Tre colonne de stucco e de’ cemento” scrive Tosti, riferendosi ai lavori della stazione Ostensie. Ci spiega Dossena che la struttura ferroviaria era costituita da una serie di tubi, ricoperta da assi di legno, su cui erano incollate lastre che dovevano simulare il travertino.
Significativo il confronto tra l’alleato di oggi è il nemico della prima guerra mondiale. “Ieri me fece un bucio ne la panza…/ma quello fu uno sbajo… a quer che sento!”
“Lì cannibali civili” già nell’ ossimoro nome/aggettivo è un forte richiamo alla lettura del Sonetto.
Nelle strofe, parole e frasi come: cannone, città ridotte a un mucchio de mattoni, “cità, case, paesi devastati, strade, campagne “arrivortate a corpi de cannone/ tra le rovine della distruzione, cataste de cadaveri…” si possono immaginare un’ unica scena sospesa tra riprese proiettate in uno schermo e realtà dove la vita si svolge fuori dalla telecamera.
Ma qual è l’ obiettivo del poeta per questo suo scritto?
Tosti ci vuole parlare della propaganda fascista attraverso i cinegiornali LUCE, proiettati al cinema.
Così ci anticipa Dossena che le immagini di “parate, la vita nei campi, officine, cerimonie, curiosità dell’estero, guerre… i riferimenti al regime”, tutto era veicolo di idee di grandezza della dittatura.
L’impiego di un linguaggio immediato, fatto di esclamazioni, messe da Tosti in bocca allo spettatore al cinema, riesce a fare sentire, per la durata di tre strofe, il sentimento di eccitazione del popolo che vedeva e ascoltava la voce narrante sulle prodezze del regime. Sull’uso del cannone leggiamo: “Eh, l’ omo ch’ha inventato ‘st’invenzione/ bisogna conveni’ ch’era un gran fusto…” E ancora: E pe’ cannoni er tedescaccio è l’ asso…” Ma poi lo scrittore sembra indicarci, nelle ultime due strofe, che tutta quell’ euforia appartiene solo agli esaltati perché la storia vera ci parla di “mamme co’ li pupi in braccio” ” Tramezzo ar fune, ar foco, ar carcinaccio,/ la fuga pazza de li disgraziati… ”
Il sonetto “Varsavia” mi riporta alla memoria una delle più belle poesie del Pascoli: “La mia sera” dove la mamma consola il bambino che ha visto il padre tornare morto su un calesse, con queste parole ” Mi dicono dormi, mi cantano dormi, mi sussurrano dormi, mi bisbigliano dormi”.
Anche in Varsavia sono di scena una mamma e un bambino; ma il quadro cambia perché qui sono tempi di guerra.
In un rifugio una mamma invita il bambino, spaventato dal rumore dei bombardamenti a dormire.”Perché c’ è tanto scuro, qui mammina?/ Mamma!… Portame via da ‘ sta cantina…/ Perché su in cielo c’ è tanto rumore?…/
Il finale si discosta dalle possibili affinità tra i soggetti delle due scene nei testi ( “La mia sera” e “Varsavia”).
Il bambino si addormenta e al suo risveglio la mamma è ripresa dal poeta “Co’ gli occhi spalancati verso” le stelle a cui aveva rivolto lo sguardo anche il bambino.
Tenerezza, candore, paura, coraggio di una mamma che rassicura il figlio dal buio, dal rumore dei bombardamenti, dal terrore di rimanere solo…
Chi scrive, toccando sentimenti, emozioni così forti non può essere solo un puro creatore di “inventio”, finalizzate alla costruzione di un racconto.
E Tosti negli scritti riportati in questo libro ci consegna la propria vita, la vita degli Italiani degli anni del regime, sdoganandoli dalla memoria, per essere faro, guida e orientamento ai naviganti di oggi nelle tempeste che si nascondono dietro l’ angolo.
Grazie a Tiziano Thomas Dossena, alle figlie di Federico Tosti la vita di un uomo, depositata organicamente in questo libro, trova compimento e universalità.
PUBLISHED BY: Idea Graphics LLC
IMPRINT: Idea Press
PUBLISHING DATE: July 2021
ISBN# 978-1948651271
LIBRARY OF CONGRESS # 2021942632
PAPERBACK: PAGE COUNT 264
LANGUAGE: Italian
DIMENSION: 6″x9″
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