di Patrizia Di Franco. Fotografie di Karm Amato
In attesa della più importante e prestigiosa mostra al mondo di fotogiornalismo, exhibition 2022, che avrà luogo nel Teatro Margherita, dal 30 settembre, data dell’inaugurazione, al 13 novembre, è stato organizzato un incontro, (con ingresso gratuito previa prenotazione per il pubblico), nell’ambito del World Press Photo Bari. Un talk straordinario con Manoocher Deghati e Fulvio Bugani, due autorevoli fotografi, massimi esponenti del panorama fotografico contemporaneo, nella sala conferenze del Teatro Margherita, per rendere ancora più fulgida e interessante l’esposizione internazionale giunta alla 65.ma edizione. Eccellenti: l’organizzazione, la direzione artistica e l’assistenza artistica, gentilissimi e disponibili Vito Cramarossa, presidente dell’associazione Cime (Culture e Identità Mediterranee) e Direttore del WPP, e l’Ufficio Stampa, soprattutto nella persona di Serena Manieri.
L’evento a cui hanno partecipato Deghati, definirlo fotoreporter di guerra sarebbe riduttivo, fotografo iraniano-francese, plurivincitore di vari premi e del World Press Photo, e Bugani vincitore del terzo posto al World Press Photo nel 2015, ha coinvolto i numerosi astanti incuriositi e interessati già dal titolo stimolante: “World Press Photo” dal 1955 ad oggi. Il racconto della storia attraverso le immagini”, un excursus ricco di scatti fotografici e aneddoti, una narrazione delle tappe fondamentali e “rivoluzionarie” del fotogiornalismo internazionale. La Fondazione “World Press Photo” nacque nel 1955, ad Amsterdam, con la peculiarità di essere una delle più importanti organizzazioni indipendenti e no profit e con gli obiettivi di tutela della libertà di informazione, di inchiesta e di espressione, e della promozione a livello mondiale del fotogiornalismo di qualità. Altre caratteristiche importanti riguardano da sempre l’offerta di un vasto portfolio di iniziative ed attività di carattere comunicativo, didattico, e di ricerca. Inoltre, la World Press Photo Foundation ha ideato il concorso prestigioso e mondiale a cui partecipano ogni anno, migliaia di photoreporter di agenzie e testate editoriali come “The New York Times”, “El Paìs”, “Reuters”, “Le Monde”, e molte altre ancora, con una novità questo anno, un nuovo format, una differente strategia di valutazione, apportando modifiche all’impostazione del concorso.
Vincitrice del contest, del World Press Photo Story of the Year (per la seconda volta, la prima nel 2017), per l’edizione 2022, è stata, per il “New York Times”, la photoreporter canadese Amber Bracken, conosciuta per i suoi lavori in favore dei popoli indigeni del Nord America, nota infatti come la photoreporter “che dà voce alle zone del silenzio”, con una foto rappresentativa ed “emblematica”, di abiti rossi “crocifissi” su un ciglio di strada, croci che onorano la memoria dei bambini morti nella scuola residenziale per nativi in Canada, a Kamloops Indian School, istituzione facente parte dei collegi aborigeni in Canada (perirono oltre 400 mila studenti, rapiti, sequestrati, maltrattati e abusati sessualmente, finora sono state identificate solamente, purtroppo, 215 tombe, e anonime, di minori incolpevoli) . Altri premi importanti sono stati consegnati a Matthew Abbott (Press Photo Story of the Year Award) , fotoreporter di Sidney, che ha realizzato il reportage dell’anno per il “National Geographic”, mostrando come i nativi australiani provochino piccoli incendi nei sottoboschi, appiccati in maniera controllata, attraverso una pratica, antichissima, chiamata “Cool Burning”, si attivano per bruciare determinate aree del sottobosco per fare in modo che la foresta risulti meno attaccabile e vulnerabile dagli incendi più gravi, dolosi e distruttivi, in pratica: bruciare le foreste per salvarle. Durante il 2022, sono stati attribuiti altri premi nella sezione video “World Photo Open Format Award”, vinta dall’ecuadoriana Isadora Romero, freelance visual storyteller, attraverso viaggi (in villaggi della Colombia, e nel dipartimento colombiano di Cundinamarca, e altri paesi) , storie personali raccontate in “Blood is a Seed” (“La sangre es una Semilla”, sulla carenza e scomparsa appunto dei semi, e sulla colonizzazione, su storie personali come la storia di suo padre Romero, sulla trasformazione dei piccoli farmers attraverso le ultime tre generazioni).
Argomento principale di questo anno sono state la crisi climatica e globale, e la salvaguardia e tutela delle culture e popolazioni indigene. La giuria, presieduta durante l’anno corrente, da Ernesto Benavides, Simona Ghizzoni, Tazim Wahab, N’Goné Fall, Rena Effendi, Clare Vander Meersch e Jessica Lim, ha deciso di allargare gli orizzonti, tramite la chance di aprire finestre sul mondo con uno sguardo attento e di ampie vedute su tutte le regioni della Terra: Africa, Asia, Oceania, Nord e Centro America, Sud America, Europa, Sud Est asiatico. La selezione per l’edizione del 2022 ha dapprima coinvolto le 7 giurie regionali, e, dopo un’accurata cernita, si è approdati alla scelta dei finalisti da parte della Giuria Globale. Risultato: uno spirito di eterogeneità e pluralismo che in maniera speculare riflette le realtà, le esistenze, gli accadimenti, le storie, del mondo in toto. Un racconto affascinante dalla diretta voce e sulla pelle di chi ha vissuto esperienze indimenticabili, spesso tragiche, drammatiche, rischiose, come nel caso di Bugani e Deghati. Bugani non è un “purista e conservatore”, open minded e globetrotter, non ravvisa e non rimarca differenze sostanziali circa l’utilizzo del digitale al posto dell’analogico e viceversa, né alcuna superiorità dell’uno sull’altro, (e affermato ciò da chi è nato e cresciuto con la Camera Oscura), ciò che davvero conta è la funzione, il messaggio, l’utilizzo, la finalità, le emozioni e i sentimenti espressi e che si trasmettono al prossimo. Ogni fotografo ha una visione personale, la sua è quella della “forza” di una foto e della comunicazione visiva che egli definisce un “linguaggio delicato, importante, potente”. Un modo di esprimere sé stesso ed esprimere contenuti, significati, “il mezzo per dare parola a un mondo che grida”, e lo fa in maniera rispettosa, più intima quasi empatica, con i soggetti fotografati, un linguaggio che porta e insegna a ragionare e a riflettere.
I due ospiti si sono alternati nella descrizione delle fotografie mostrate, a cominciare dalla prima foto esaminata che ritraeva un’opera di 50mila anni fa in Indonesia, disegni che volevano comunicare qualcosa d’importante, così inizia la nostra storia dai geroglifici e, ancor prima, dalle prime bozze di figure umane. Manoocher ha fatto comprendere quanto fosse importante attraverso tentativi ed evoluzioni, cercare di raccontare storie, 15mila anni fa l’uomo ha iniziato a fare “prove” con gli animali per poi delineare figure e in seguito per raccontare storie. Quando Pablo Picasso vide questi disegni, basito ed estasiato, affermò: “In tutti questi secoli ed ere non abbiamo capito nulla”, ha rammentato, sorridendo, Deghati, e proseguendo con un’introduzione alla nascita ed evoluzione della fotografia, rimarcando la creatività dei primi autori e creatori di immagini, disegni, l’uomo comincia a creare rappresentazioni che non esistevano in Natura, nelle caverne, nelle profonde grotte, al buio, quasi fossero “sciamani”, qualcosa di irreale e surreale, “magico”. La prima eliografia sarebbe opera di Joseph Niépce nel 1826, la prima fotografia considerata tale è datata 1827, ma si ritiene che in realtà sia del 1790 la prima e vera impressione di carta chimica su carta, come ha spiegato Deghati. Già Aristotele scoprì che la luce attraverso un piccolo foro poteva proiettare un’immagine circolare. La denominazione di Camera Oscura si riferirebbe proprio alla definizione, attribuita a un fisico, astronomo, matematico, filosofo, arabo, Alhazen, scienziato, studioso dell’ottica euclidea e della prospettiva, ritenuto l’antesignano dell’ottica moderna, il divulgatore di quella scatola in cui confluivano, si “riproducevano” le immagini. Il geniale Leonardo da Vinci, nel 1515, descriveva la “Camera oscura”, a cui diede l’appellativo di “occhio artificiale” e a cui applicò una lente. Materiali fotosensibili erano conosciuti già nel Medioevo, ma è nel 1727 che accadde una scoperta importantissima: il nitrato d’argento, grazie a Johann Heinrich Schulze. Thomas Wedgwood invece fu l’iniziatore del processo di impressione fotografica. Importantissimi, dunque, gli esperimenti degli alchimisti e il binomio chimica/fotografia, e riguardo la fotochimica e il brevetto (1841) della stampa al collodio non si può ignorare e non menzionare lo scienziato inglese William Fox Talbot inventore della calotipia un processo particolare di sviluppo fotografico, e del citato brevetto. Per i naturalisti il primo fotografo è stato il Sole. Per altri, ricercatori, storici, furono realizzate fotografie prima del dell’Ottocento, già nel secolo precedente, e per Nicholas Allen, studioso di storia dell’Arte, la Sindone di Torino è una protofotografia rudimentale medievale del XIII secolo, realizzata su lino con cloruro d’argento fotosensibile, e sempre secondo Allen la camera oscura sarebbe stata utilizzata fin dall’antichità dai pittori per ricalcare immagini reali e perfino Platone alluderebbe a ciò nel “mito della caverna”.
Manoocher concorda sul fatto che lo scienziato e inventore britannico Thomas Wedgwood, zio del celeberrimo Charles Darwin “padre” della teoria dell’evoluzione, abbia contribuito notevolmente alla nascita e “rivoluzione” della fotografia, catturando immagini per mezzo del nitrato d’argento, per trasferire poi su vetro, cuoio, immagini di foglie e altri oggetti. In Inghilterra, alla fine del XVIII, in piena rivoluzione industriale, sarebbe cominciato un altro sommovimento, un’invenzione che avrebbe effettivamente rivoluzionato il mondo delle immagini, tra il 1790 e il 1791 in cui sarebbe avvenuta la prima impressione permanente di un’immagine su carta, la prima”fotografia” (prova di ciò la fitta corrispondenza, fogli, lettere, tra Wedgwood e James Watt, sì proprio l’ingegnere e inventore della valvola di regolazione, il regolatore di Watt, per mantenere costante la velocità della macchina a vapore. Il watt, unità di misura della potenza del SI, sistema internazionale di unità di misura, prende nome proprio da James Watt). Entrambi i fotografi, ospiti del World Press Photo, nel capoluogo pugliese, hanno sostenuto un punto cardine della fotografia: andare in luoghi dove altre persone non vedono o ignorano: “Noi andiamo in quei paesi e posti per mettere in luce la realtà attraverso la fotografia”. Secondo Manoocher, come fotografo devi avere “confianza”, ossia confidenza, ed empatia, il lavoro del fotografo consiste nell’esserci fisicamente ma, e non è un ossimoro. non esserci al tempo stesso, il bravo fotografo deve essere “invisibile” però allo stesso tempo deve riuscire a stabilire una connessione, deve produrre una relazione con i soggetti e anche luoghi da fotografare. Per Bugani è fondamentale avere Etica, oltre che professionale, pure dal punto di vista umano.
Essenziale e prioritario per entrambi, effettuare fotogiornalismo di denuncia, raccontare e mostrare fotografie di donne, bambini, anziani, soprattutto in zone del mondo disagiate o coinvolte loro malgrado in conflitti bellici. “Denunciare ingiustizie è la conditio sine qua non, per noi, per potere svolgere al meglio la nostra professione, impegnativa e bellissima, purtroppo oggi non ci sono più i grandi assegnatari”, ha puntualizzato Bugani, confidandoci di avere svolto a Montecarlo un lavoro in soli 6 giorni, mentre agli inizi, l’epoca dura ma d’oro, per Manoocher c’era la possibilità di rimanere in un determinato luogo per 6 mesi. Deghati ha sostenuto l’importanza per lui di essere poliglotta e in generale di quanto sia rilevante e utile la conoscenza di più lingue straniere, egli ha appreso l’idioma degli autoctoni, e la loro cultura, per imparare a conoscerli, instaurare un rapporto e fare amicizia. Bugani, riferendosi al World Press Photo, le cui regole sono, giustamente, ferree, ha espresso entusiasmo e ammirazione per alcuni cambiamenti introdotti dal 2015 e specialmente per l’Open Format, categoria ideata dal WPP, definito da lui “una rivoluzione”. Un viaggio nel tempo attraverso fotografie di forte impatto emotivo, le prime quasi poetiche come quelle in cui appare la raffigurazione di un animale che potrebbe essere un cavallo e richiama il tema della necessità e della voglia del genere umano di comunicare, rappresentare e mostrare la realtà anche attraverso l’immaginazione senza potersi avvalere di strumenti e apparecchiature fotografiche. Molti scatti strazianti come quelli di esseri umani assassinati in varie guerre, ritratti di mamme che con disperazione, sofferenza, amore, tenerezza commovente, stringono tra le braccia, o deposti sulle loro ginocchia, i propri figli, li guardano per proteggerli o come volessero riportarli in vita, e poi scatti fotografici che denunciano le ingiustizie, lo sfruttamento del lavoro minorile, la miseria, l’uccisione di giovani soldati, riti funebri e funerali. Alcune fotografie ricordano l’opera e l’iconografia della “Pietà di Michelangelo” (la Pietà Vaticana) : la Madonna, seduta su una roccia che allude al Calvario, tiene sulle sue ginocchia, il corpo senza vita di Gesù, come se lo volesse cullare, con infinito amore e una sofferenza indescrivibile unita a una dolcezza immensa, gran dignità e compostezza, e, con rispetto, delicatezza, interpone il sudario tra la sua mano e il busto del figlio, mentre con l’altra mano con gesto intriso di pacatezza e discrezione richiama l’attenzione e mostra la tragedia della crocifissione. Si susseguono immagini. Fotografie di denuncia, chiamata anche “Fotografia Sociale”, come quella della bambina lavoratrice, americana, che svela la piaga e la crudeltà dello sfruttamento del lavoro minorile, scattata da Lewis Hine, il fotografo che cambiò il mondo con la sua macchina fotografica, definito il “poeta della fotografia”. Grazie a Lewis Hine, l’America può conoscere la vera storia, e viaggiare attraverso una metaforica e immaginaria macchina del tempo, osservando le grandi trasformazioni nel corso del Novecento. Il primo fotografo a realizzare straordinari reportage soprattutto nelle grandi città di allora, specialmente a New York, il primo a comprendere la potenza del medium fotografia di cui servirsi come linguaggio, comunicazione, non solo per denunciare ma anche per sfatare il mito del sogno, infranto, americano, e per promuovere nuove riforme sociali, sensibilizzare su delicate problematiche e tematiche, onorare la grandezza del lavoro che nobilita l’uomo, celebrare la dignità e necessità del lavoro, e rendere tributo alle fatiche e stenti, al duro operato, allo sfruttamento dei lavoratori, bambini, giovani adulti, immigrati. Famoso il suo reportage a “Ellis Island”, con foto di volti provati, stremati da lunghissimi viaggi, speranzosi ma poi traditi e disillusi, a causa di impieghi umilianti e sottopagati, costretti a vivere in cantine, baracche, spesso al freddo e senza luce. Altrettanto importante e rischiosa l’inchiesta sul lavoro minorile (spesso effettuata sotto “falsa identità”, infiltrandosi, spacciandosi per un assicuratore, un agente di vendita, un fotografo industriale) , commissionata dal NCLC (National Child Labor Committee), nel 1908, una documentazione eccezionale per cui Hine viaggiò per un decennio, tra Chicago e la Florida, quasi due milioni di bambini lavoravano: nelle fabbriche tessili, come strilloni venditori di giornali per le strade, nelle miniere, nelle industrie, nelle campagne come la piccola Laura Petty raccoglitrice di frutti di bosco a soli sei anni, a piedi nudi, con il vestito ormai rovinato e sporco, erano costretti a farlo per sostenere economicamente le loro famiglie e grazie alla loro manodopera, alla loro forza lavoro, si poté giungere agli anni d’oro del boom economico in America. Questi scatti mostrano la mancanza di etica e umanità nei luoghi di lavoro e l’aspetto immorale e privo di scrupoli, malvagio, da parte dei datori di lavoro, ma anche la dignità e onestà di tutti i lavoratori sfruttati. Nonostante numerose leggi, a cominciare dal “Factory Act” del 1833 fino al 1916-1918 (la “Keating-Owen Act”, firmata dal Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, insignito del Premio Nobel nel 1919, e controversa figura per molti, poiché era pro: suprematismo bianco, segregazione razziale, e imperialismo nei confronti di alcune nazioni, soprattutto dell’America centrale), nonostante le norme attuali, purtroppo la drammatica piaga dello sfruttamento minorile è riapparsa in tantissimi paesi del mondo, in Italia, e anche negli Usa (in Massachusetts nell’industria dell’itticoltura, in Ohio in pollai non a norma di legge e pericolosi per la salute dei bimbi) nonostante Leggi federali e statali sul lavoro minorile ne proibiscano l’impiego. La fama di Hine, “a slight man who carried a big camera”, la si deve anche al Reportage fotografico sulla costruzione dell’“Empire State Building”, grazie al mestiere faticosissimo e pericoloso (senza protezioni e sicurezza sul lavoro) di oltre 3000 operai, fotografie effettuate tra il 1930 e 1932 e pubblicate nella raccolta “Men at Work”. Hine, alla stregua dei grandi fotografi di guerra, come ha fatto Manoocher Deghati, ha vissuto con i soggetti fotografati, imparando a comprenderli, a conoscere le loro abitudini, usi e costumi come per l’appunto loro due: Fulvio Bugani e Deghati. Riguardo Hine, disse il suo collega Ansel Adams: “Voleva mostrare il male per indurre la protesta, e il bene per farne tesoro”.
La stessa “mission” che accomuna i due fotografi illustri, ospiti e narratori della prima giornata del World Press Photo a Bari, il 16 settembre, che hanno raccontato la storia attraverso la fotografia, anche prima del 1955, tramite appunto scatti di altri fotografi come Hine, e personali. Meravigliosa la fotografia del “Faraone Nero”, effettuata da Manoocher Daghati che ci ha rivelato la presenza di oltre 100 piramidi in Sudan dei cosiddetti “faraoni neri”. Bella ma “un pugno nello stomaco” la fotografia del bimbo disperato a causa della siccità in Kenya, dove, come ha detto Manoocher, se riesci a trovare un lavoro la retribuzione corrisponde a meno di 1 dollaro al giorno. Deghati ha poi rivelato che il vincitore della 60esima edizione del World Press Photo 2017, scelto per lo scatto dell’omicidio dell’ambasciatore russo in Turchia, è stato il suo amico e collega turco Burhan Ozbilici dell’agenzia Associated Press, la foto dal titolo: “Un assassinio in Turchia” mostra l’attentatore Mert Altintas subito dopo l’uccisione di Andrey Karlov, l’ambasciatore russo, guest all’inaugurazione di una mostra (19 dicembre 2016). L’abilità e il coraggio di Burhan sono riusciti a cogliere l’istante in cui il killer è in piedi con la pistola in mano puntata a terra e l’altra mano a indicare il cielo verso cui punta l’indice come in segno di vittoria. La foto venne premiata con tale motivazione: “Una foto con un impatto incredibilmente forte”. Deghati ha lodato il suo collega Ozbilici , per il sangue freddo, il coraggio, di restare in quella sala, mettendo a repentaglio la propria vita. Moltissime le foto presentate al folto pubblico, scatti che mostrano la realtà senza filtri, manipolazioni, uso e abuso di photoshop.
A tale proposito, Manoocher Deghati e Fulvio Bugani hanno parlato anche dei fake, e Deghati ha dichiarato che subito si era accorto fosse un falso lo scatto del volto di Osama Bin Laden ucciso. L’immagine aveva fatto il giro del mondo, la fotografia fu pubblicata dalla maggior parte dei giornali e diffusa da svariate emittenti televisive: nella trappola ci cascarono quasi tutte quelle italiane. Il sito Peacereporter affermò senza alcun dubbio che la prima foto di Bin Laden assassinato fosse un falso, ottenuto per mezzo di photoshop, dunque in realtà un’immagine elaborata con un programma di editing di immagini, ripresa dal sito “unconfirmedsources” (quella foto risalirebbe al 23 settembre 2006, e il file era denominato “Osama torturato”). In riferimento a Steve McCurry e a tante fotografie da lui ritoccate, Deghati ha detto che soltanto in seguito alla scoperta della verità emersa, dopo molti anni di fama, premi e riconoscimenti, McCurry si è scusato per errori o per tante fotografie e ritratti ritoccati, volutamente fatti passare per capolavori naturali, scatti autentici, e mentre agli inizi si definiva fotogiornalista, da quando i suoi scatti sono stati ritenuti e riconosciuti ritoccati, anche per sua stessa ammissione, adesso McCurry parla di sé come artista, si reputa e si definisce tale. In un articolo apparso su Time, il fotografo Peter van Agtmael, dal 2006 photoreporter anche di guerre, americane, sul campo, sia come embedded (chi lavora come testimone e opera in qualità di photoreporter incorporato o con una delle unità combattenti) , al seguito dell’esercito USA, che in modo autonomo, documentarista, statunitense, membro di Magnum Photos, si è leggeremente sbilanciato e schierato. Peter van Agtmael ha parzialmente difeso McCurry dalle innumerevoli critiche ricevute e dai giudizi negativi da parte di quanti si sono sentiti ingannati, traditi, presi in giro, sia mass media che gente, lettori, appassionati di fotografia, colleghi. Agtmael sostiene che:”è giusto ricevere dai fotografi totale trasparenza sul loro ricorso al ritocco, ma non ha molto senso aspettarsi verità e obiettività da una foto, concetti poco applicabili alla realtà quotidiana. Anche migliaia di foto non ritoccate possono non formare un racconto obiettivo della realtà, come nel caso della crisi dei migranti in Grecia, degli sbarchi a Lesbo”. Bugani non ha “demonizzato” l’utilizzo del photoshop, ma si è schierato totalmente a favore di trasparenza, verità, e fotografie naturali. Entrambi critici, sia lui he Deghati, riguardo l’abuso del photoshop, e, ca va sans dire, del tutto contrari alle fake photos e fake news. Ambedue hanno chiosato attraverso gli ultimi scatti d’autore, dichiarando che dietro ogni fotografia c’è una storia, c’è un paese, un luogo, un essere umano, e che la fotografia si “scrive” con la luce e la passione.
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