Questa mattina, dopo la lettura di un articolo, ho l’opportunità di riflettere sulla parola vacanza, (dal vocabolario Treccani: “dal latino Vacantia: Il fatto, la condizione di essere o di rimanere vacante”; o nell’accezione specifica del termine vacante “che è libero, che non è occupato”).
Vacanza in questo periodo eccezionale di “costrizioni” appare come un miraggio; perfino pronunciarla, la parola vacanza, diventa una sorta di mantra, un’”espressione sacra” che invita alla meditazione.
Quindi, prima di affrontarla, la vacanza, la meditiamo, l’accarezziamo perché in quell’atto d’amore non scappi. “Dove andremo in vacanza?”, ci ripetiamo in modo compulsivo. E, una volta individuata la meta, incominciamo a tratteggiarne i contorni, da riempire in cose da fare. Perché anche dietro il non fare, il volere rilassarsi, tra mille persone intorno, o in spiaggette o luoghi solitari che la natura offre, i giorni di vuoto dal lavoro e dalla routine quotidiana troveranno senz’altro una giustificazione all’esistenza. “Non vado lì per andare lì, ma perché lì significa qualcosa d’altro che se stesso”, riporta in un suo saggio lo studioso Roland Barthes
Trovarsi in un periodo di sospensione risponde a una sorta di “utopia dell’evasione” momentanea, una “necessità” , come dicono alcuni, dettata dal desiderio di essere altro all’interno di uno spazio scelto, rispetto allo spazio della quotidianità. Come se da questa quotidianità volessimo allontanarci, “scaricarla”, disconoscerla ma che pure portiamo con noi nelle conversazioni famigliari o con i vicini di ombrellone, di casa e di qualsiasi altro ambiente che frequentiamo in vacanza perché è di questa normalità che siamo impastati.
In quel luogo di miracolo e di conquista, sentiamo dire intorno a noi, “Trovo beneficio per il corpo e per lo spirito, per il clima, per la gente, per l’architettura, per il paesaggio, per i servizi o in non servizi che offre… perché ho la proprietà da controllare, degli inquilini da tenermi buoni, da tenere d’occhio…”
“E poi ho bisogno di vacanza perché devo scappare dalla città, dalla campagna, dal borgo, a favore di mare, montagna, lago, luoghi d’arte, esotismo, terme, crociera.
Sembra proprio che vacanza sia sinonimo di conferma di traguardo conquistato rispetto ai modelli genitoriali o generazionali che hanno precorso le nostre vite.
Cosa detta la necessità della vacanza? Desiderio di offrire di sé un’immagine attraverso una sovrabbondanza che in genere non caratterizza la mia vita; una forma di esibizione, di piacere supremo, all’insegna del benessere, del miglioramento della propria conoscenza, di un ipotetico reinventare, ricostruire confini e aspetti architettonici dei luoghi che viviamo non appena entriamo in contatto con nuove forme estetiche e paesaggistiche, offerte in premio nei nostri spostamenti di svago.
Il mito/rito della vacanza, divenuta di massa, alla portata di tutti, o quasi, induce a pensare in qualche modo come oggi per alcuni essa non sia più solo un fatto di riscatto sociale, ma un dovere che mi spetta in quanto lavoratore che vive all’interno di un sistema produttivo compulsivo. Qui potremmo aprire mille parentesi su chi invece è scartato da questo sistema produttivo e capiamo bene che questa riflessione è rivolta solo a una categoria di persone che godono del diritto-privilegio di un lavoro.
Nella vacanza esco da me per essere immerso in un orizzonte che riguarda una maggioranza di persone o cose.
Ma siamo veramente liberi, se questi sono i presupposti di una scelta che affranca da un tempo di normalità, troppo normale?
Mi piace finire queste poche righe sottoscrivendo il pensiero dell’articolista sull’idea classica di “Otium”.
Penso quindi potremmo anche recuperare questo concetto (per i Greci “scholé: «tranquillità, tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali»), l’agognata parentesi dell’attività pratica a favore di un alternativo nutrimento della mente. Questa proposta di “Otium” può essere applicata alla vacanza se pensiamo a questa anche come un’opportunità di contemplazione opposta alla mera azione delirante, incontenibile, convulsa ideologia dall’azione.