Arrivammo in leggero anticipo al cancello della villa di Andretti in Pennsylvania. Dall’esterno la struttura mi ricordò vagamente una tenuta agricola rimodernata, come si può trovare nelle nostre campagne toscane. Tutto in accordo con la sua passione per l’uva ed il vino, pensai…
La segretaria ci accolse cordialmente e ci fece incontrare il campione immediatamente. Mi parve impossibile che una personalità del suo calibro stesse pazientemente attendendo i rappresentanti della nostra rivista, elitaria forse ma certamente non di grande tiratura, ma era proprio così. Mario Andretti ci apparve subito come una persona affabile, genuina, senza quegli sbalzi d’umore o personalismi tipici di chi ha vinto tanto da diventare un mito. Ci invitò a seguirlo in una sezione della villa che ospitava alcuni trofei e poster fotografici dei suoi exploit. Era un insieme di stanze collegate tra loro ma ognuna con proprie caratteristiche estetiche. Ci chiese di scegliere la stanza nella quale avremmo fatto l’intervista e optammo per un simpatico salottino alla base delle scale che offriva l’impostazione ideale sia come comodità per un colloquio a tre sia come spazio per i nostri due fotografi.
L’intervista iniziò con naturalezza ed il nostro giovane giornalista iniziò a spiegare che quello che gli interessava erano i suoi legami con l’Italia e con la sua famiglia. Andretti sorrise sorpreso, convinto forse che avremmo chiesto sulle sue spericolate corse automobilistiche, come tanti altri giornalisti avevano fatto prima di noi.
La conversazione amichevole che ne nacque ci sorprese oltre modo. Ci parve di essere andati a visitare uno zio lontano che non vedevamo da anni. Il fascino di Andretti era proprio nella sua autenticità, la sua voglia di fare nonostante l’età, quel suo entusiasmo per l’automobile da corsa che non si era sopito con gli anni, ma anche nel suo sincero attaccamento alla propria famiglia, della quale parlava molto e volentieri, e alla propria italianità.
Ci aspettavamo d’incontrare Mario Andretti, il super-campione, il pilota che aveva vinto tutto, proprio tutto, ma avevamo anche incontrato un uomo umile che preferiva parlare dell’affetto per il fratello e delle prime esperienze di corsa con lui che non dei grandi momenti storici della sua carriera.
Con il passare dei minuti, la sua storia si era spiegata davanti ai nostri occhi e quale storia era: un vero e proprio romanzo! La seconda guerra mondiale, l’invasione e poi l’ammissione del suo paese nella nuova Yugoslavia, la decisione di spostarsi in Italia, i campi per i profughi in Toscana, l’opportunità di emigrare in America… I primi anni negli USA li aveva passati a costruire una macchina in garage con il fratello gemello Aldo, per poter partecipare alle corse. Alla prima presenza avevano conseguito la vittoria, ma per nascondere la loro tenera età, che li avrebbe preclusi dal correre, avevano presentato un documento d’identificazione contraffatto. Poi sempre più corse e vittorie…e ancora vittorie.
Se non ci avesse portato in un enorme salone con centinaia e centinaia di trofei messi in bella esposizione, non avremmo mai compreso l’entità della sua presenza nel mondo delle corse automobilistiche, perché Andretti parlava di sé come di un italiano, un emigrato che aveva avuto un po’ di successo, minimizzando i suoi trionfi, la sua popolarità, la fama.
L’unico pilota al mondo che era riuscito a vincere in tutte le categorie di corse automobilistiche, l’uomo che aveva riportato la Ferrari alla vittoria, il campione del mondo di formula 1, il pilota NASCAR che aveva battuto il grande Richard Petty a Indianapolis, preferiva illustrarci che era sindaco a vita del proprio paese natio e che aveva finanziato l’insegnamento della lingua italiana per tutti gli scolari di questa ridente cittadina, che ora si trova nel territorio croato. La sua italianità era così assoluta che voleva essere sicuro che anche i suoi giovani concittadini avessero questa opportunità.
Il colloquio si protrasse molto oltre la scadenza stabilita, e noi continuavamo a visitare stanze su stanze ripiene di trofei scintillanti, il garage con le sue macchine da corsa e le varie motociclette (si, perché Andretti corre anche in moto), la sua cantina, dalla quale gentilmente fece dono ad ognuno di noi di una bottiglia di vino di sua produzione. Il pilota Andretti aveva lasciato il posto all’uomo Andretti, che sprizzava di entusiasmo nel mostrare il suo mondo solamente perché leggeva nei nostri occhi la sincera ammirazione che ognuno di noi gli portava . Era come un bimbo che gioisce nel mostrare la sua collezione di figurine. L’avevamo toccato con la nostra venerazione, il nostro stupore, così quanto lui ci aveva toccato con la sua umanità, il suo modo di fare naturale e premuroso, la sua disponibilità.
La decisione di presentarci in quattro ci era parsa un poco eccessiva, ma si rivelò inaspettatamente perfetta per l’occasione: quattro reporter che si dimostravano sfegatati ammiratori e che non avevano timore di esprimere sia il loro rispetto sia l’interesse per tutto quello che lo riguardava.
Nonostante in passato avessi intervistato personaggi famosi dello sport e dello spettacolo, simpaticissimi e disponibili, Mario Andretti aveva catturato ancor più di loro il mio interesse, la mia mente, il mio cuore. Questa leggenda del mondo automobilistico era riuscito a proiettare qualcosa di sé che esulava dalla sua posizione di successo e che aveva permesso di farmi sentire come se fossi a casa mia, a contatto con un caro zio che non vedevo da anni…