di Federico Scatamburlo [come apparso su OperaAmorMio magazine]
Inaugura il 101esimo Opera Festival l’opera in titolo, a seguire dalla sera prima del grande evento in mondovisione che ha celebrato l’iscrizione del canto lirico italiano nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale nel 2023.
Il cartellone del Festival di quest’anno non è dissimile, nel genere, da quello degli anni precedenti. Qualcuno potrebbe dire che non c’è il coraggio di osare qualcosa di particolarmente nuovo, di non prendersi qualche rischio in più per uscire da una specie di zona di comfort, ma, tant’è, le scelte effettuate accontentano sempre il pubblico areniano, che sappiamo essere eterogeneo ed internazionale, specialmente quest’anno che il turismo sta vivendo una nuova rinascita dopo qualche anno un po’ buio.
Turandot, Aida, Bohème, Carmen, il Barbiere, Tosca: tutti titoli che garantiscono tanta partecipazione. E infatti in questa première il teatro è sold out, diecimila persone riunite sotto un unico cielo, già questo crea una certa emozione ancor prima che si levino le prime note dall’orchestra con il brusio indistinto fatto di molteplici lingue di amanti del bel canto arrivati da tutto il mondo.
Turandot è caratterizzata da forti contrasti ed enfatizzata dall’uso incalzante di simboli, di scene corali imponenti e di un lirismo musicale travolgente e fiabesco; pertanto, non poteva essere che la scelta migliore per iniziare “col botto”.
L’ultima e incompiuta opera di Giacomo Puccini si aggancia in questa messa in scena ad un finale di Franco Alfano, che a parere di chi scrive è sicuramente il migliore di quelli esistenti, in quanto si avvicina maggiormente alle intenzioni di Puccini verso la conclusione della narrazione, quando finalmente il gelo della principessa si scioglie e diventa amore. Non sapremo mai se fossero veramente queste le intenzioni dell’autore, ma il lieto fine è sempre gradito, com’è d’obbligo in tutte le fiabe.
La regia e le scenografie sono quelle già note del grande Franco Zeffirelli, abbinate ai bei costumi di Emi Wada. L’effetto stupore è assicurato anche a chi l’ha già vista diverse volte, perché quello che si apprezza di più è la netta definizione dei personaggi. Grazie anche a una sapiente illuminazione il bistrattato Popolo di Pekino si trova sempre in una zona cupa e buia, sovrastato dalla lucente magnificenza del Palazzo Imperiale. Le comparse e gli artisti del coro (e sono tanti) si muovono sul palco solo con apparente studiata confusione: il tutto è ben coreografato da Maria Grazia Garofoli.
Una piacevole scoperta è Michele Spotti, giovane ma promettente direttore, che saldamente tiene le fila non solo della magnifica Orchestra della Fondazione Arena di Verona ma anche degli artisti sul palco. Il rovescio della medaglia è che per questo motivo in molti momenti è mancata la potenza e la maestosità orchestrale che intride Turandot, con un risultato un po’ sommesso. Comunque, un buon inizio per lui, sapremo sicuramente apprezzarlo maggiormente in futuro.
Lascia un po’ perplessi aver affidato la parte della protagonista a un mezzosoprano: Ekaterina Semenchuk infonde con passione ardore al personaggio di Turandot, ma la naturale mancanza di spessore nella zona acuta hanno reso piuttosto piatta, specie nella parte iniziale, una parte che è riservata, e sicuramente riesce meglio, a un soprano drammatico con una maggiore estensione.
Ritroviamo il Calaf di Yusif Eyvazov, sempre gagliardo, entusiasta e scenicamente efficace, tanto da dare una impronta personale al personaggio che interpreta. I fraseggi sono gradevoli e gli acuti squillanti, peccato che spesso nella zona centrale le vocali siano sempre troppo aperte, rendendo un po’ troppo graffiante la linea di canto.
In questa messa in scena i tre ministri, Ping, Pong e Pang rispettivamente Youngjun Park, Matteo Macchioni e Riccardo Rados, vestono costumi divertenti, che ne esaltano il lato faceto, e sono ben armonizzati, completamente a proprio agio nella loro parte.
La bella voce di basso di Riccardo Fassi ha aggiunto grande profondità e pathos alla narrazione. I fraseggi accurati sottolineano mirabilmente la condizione di esule e la dignità e la nobiltà d’animo del personaggio dei re dei tartari, Timur, e tutta l’umanità del personaggio.
Augusto e altero come deve essere l’Imperatore di Carlo Bosio, che interpreta con precisione la parte del padre di Turandot. Peccato solo che la posizione molto rialzata in cui è relegato, in queste scenografie in particolare attutiscano parzialmente il suono della voce.
Correttamente eseguite le parti del Mandarino (Hao Tian) e il Principe di Persia (Eder Vincenzi).
Nel repertorio operistico una delle più belle e commoventi linee di canto, che si innanza e cade come un lamento, è quella di Liù. Ne veste i panni Mariangela Sicilia, che è la migliore interprete in questa serata. Affascinante ed enigmatica, filati e pianissimi lunghi e ben tenuti denotano una sensibilità particolare nel dosare le dinamiche per rendere al meglio ogni sfumatura emotiva. Quasi straziante il “Tu che di gel sei cinta” caratterizzato da slanci emotivi ed accenti che enfatizzano la determinazione e il dolore. Tutto questo è arrivato molto bene al pubblico, che le ha tributato una fragorosa ovazione, anche negli applausi finali.
Bene, dunque, ma non benissimo. Ci auspichiamo che, scaldati i motori, questa meravigliosa macchina del teatro che è la Fondazione Arena di Verona ci possa regalare momenti indimenticabili.
La recensione di riferisce alla recita della première, 8 giugno 2024