Trattare il tema della madre non è semplice. Diversi scrittori nel tempo si sono misurati in questo difficile compito con maggiore o minore successo. Non è cosa semplice senza cadere nella retorica o nell’enfasi, nella tentazione di offrire al lettore un’immagine eroica od eccezionale della figura materna.
Ridisegnarla filtrata alla luce del ricordo, o tratteggiarla negli ultimi anni di vita, ripercorrendone la storia, lasciando che si stagli semplice, umile, integra, attraverso uno sguardo discreto ed emozionato: questo è l’omaggio alla propria madre, attraverso la narrazione che ne fa Silvio Ramat.
Uscito nel 2002, il libro in endecasillabi è un vero e proprio racconto in versi , come già annunciato nel sottotitolo, composto di 84 componimenti, in cui l’autore pone in rilievo la vita di una donna, la madre Vanda Pieroni.
Il racconto ci appare quasi un arazzo nel quale ruotano i familiari, il marito e quattro figli, un quadro in cui i pezzi si innestano fra tratti lirici e vicende storiche, dove lei, la madre, si muove, con riservatezza, e si staglia da protagonista.
All’interno della narrazione, si inseriscono otto corsivi di cui lo scenario è la vecchiaia. Essi riportano il lettore in una dimensione temporale che interrompe la narrazione cronologica dei fatti. Uno in particolare, di questi corsivi, orienta lo sguardo del lettore alla casa di riposo, alle voci degli ospiti, al panorama che appare dalla veranda; visioni e suoni che in lei, la madre, prendono forma circoscritta in cipressi vicini, voci di scolare o di qualche compagna che da un passato lontano vivono oltre il tempo.
Leggendo e rileggendo questo libro, ci si accorge che l’animo si dilata, segue e percorre le vie, i luoghi cari o i paesaggi, gli affetti, le vicende avventurose di una famiglia durante il “ventennio”. Collante lei, la madre, economa saggia, premurosa e intelligente compagna e nutrice. Ma soprattutto donna con la precisa vocazione di scrittrice che sacrifica alla famiglia l’aspirazione personale e la stessa passione letteraria, anche se giungerà nel tempo a pubblicare un romanzo e delle novelle.
Silvio Ramat è la voce narrante del figlio che è riuscito a cogliere il filo della vita della madre nei fatti da lei raccontati. Si potrebbe perfino immaginare una madre e un figlio che conversano, sentirne le voci, cogliere quell’intimità che lega le donne ai propri figli nei pochi momenti che concede la vita a fare della parola lo scioglimento di un enigma: entrare nel cuore, nello spirito di chi si è generato e che è ormai adulto, coglierne i segreti in uno scambio di confidenze, disponendo l’ animo alla verità in modo semplice.
Il componimento è percorso dall’endecasillabo che se pure non costruito secondo una natura melodica, né volutamente abbandonato a rime frequenti, (dovendo del resto lo scrittore trattare una materia oggettiva e in una continua oscillazione tra partecipazione emotiva e distacco), sa sciogliersi, in parecchi squarci di ricordo, in canto spiegato e commosso.
Ne è un esempio la lirica numero 10 dove il poeta ci rende partecipi del sentimento d’amore che sta sbocciando tra la madre e il padre con queste parole Volersi bene, promettersi molto./ Filano d’intesa le loro vite…
O ancora, nella lirica numero 13, per descrivere il luogo e l’atmosfera che vede i genitori, appena sposati, maestri di prima nomina, Silvio Ramat scrive:
Così poco lontane le sorgenti
della Fiora, che la notte – o era il vento –
potevano sentirlo il chiaro transito
del fiume – vena di torrente.
Un canto percepito già arrivando
la prima sera a Bagnolo: nel buio
perché i viaggi si sa appena se
e quando cominciano – il treno, poi
la corriera, il carro finalmente,
e loro stanchi, ammantellati, oggetto
di sorriso a chi li accoglieva…
Infine, nella lirica numero 15, nel momento in cui i genitori devono lasciare la cara Bagnolo per Como, dove Raf, il padre, accetta l’invito di un caro commilitone a ricoprire la mansione di sindacalista, leggiamo:
… Lei
si stupisce non le sembra possibile
che ci si stanchi di Bagnolo. Il suo
“Addio, monti…” se lo trattiene in cuore.
E così, quasi per un improvviso riemergere di pagine manzoniane dalla memoria, offuscata da ben altra quotidianità, ricreiamo nella nostra immaginazione quella Lucia costretta a lasciare il paesello che custodiva le segreti speranze di una vita semplice e felice con il suo Renzo e ciò in una perfetta corrispondenza d’animo con il sentire della madre del poeta allorché deve abbandonare le voci, i contorni di un paesaggio a lei caro.
Il libro oggi esce in una nuova edizione accresciuta da postille in versi di poesie sparse in altre raccolte e da 12 narrazioni, appartenenti alla sezione Parte in causa.
Sono essi graziosi racconti, in cui l’autore dà prova di scrittore a tutto tondo.
Dice Ramat, a tal proposito, paragrafi che punteggiano la figura di mia madre con aneddoti e magari stranezze,
Mi piace finire questo viaggio nella memoria del poeta Ramat, riportando una delle poesie, tratta dalla sezione Postille.
In essa lo scrittore immagina gli ultimi momenti della madre da cui emerge, coerente all’esistenza di questa donna, la ricerca spirituale, una fede robusta e radicata.
Infruttuosa, da tanto, la vita.
Ma ostinata nel non lasciar la presa.
Non so a che astuzia fece, lei, ricorso
per distrarre quell’intima nemica.
Forse chiese e ottenne – essendo notte –
di restar sola il tempo d’invocare
Il Padre nostro o l’Angelo di Dio.
Bastò a toglierle il peso del respiro.