Uno dei più famosi esempi di distopia in ambito cinematografico è “Il pianeta delle scimmie” del 1968, tratto dall’omonimo romanzo dell’autore francese Pierre Boulle. Un successo durato molti anni, dato che al primo, diretto da Franklin J. Schaffner e con Charlton Heston, sono seguiti altri cinque film, una serie tv live action, una a cartoni animati, albi a fumetti e un remake del 2011 di Tim Burton con Andy Serkis. L’intera saga de “Il pianeta delle scimmie” è un lampante caso di distopia: la previsione di uno scenario futuro in cui, in una civiltà con dinamiche simili a quelle umane, sono completamente rovesciati gli equilibri di forza fra esseri umani e animali.
Perché una storia in cui sono le scimmie a comandare un pianeta è tanto accattivante per noi esseri umani “padroni” della Terra? Perché la somiglianza fra noi e loro ci turba tanto da averli considerati come esseri inferiori? E come è cambiato il rapporto fra noi e loro in questi cinquant’anni anni, cioè dall’uscita del primo film ad oggi?
Per chi non l’avesse visto, o lo ricordasse poco, questa è la storia. Una navicella spaziale parte dalla Terra, l’equipaggio viene ibernato e venti secoli dopo il capitano George Taylor e i suoi compagni atterrano fortunosamente su un pianeta governato da gorilla, scimpanzé e oranghi, i primati evolutivamente più vicini alla specie umana. Taylor e gli astronauti sopravvissuti venmgono fatti prigionieri e vessati in tutti i modi possibili. Solo due sensibili scienziati-scimpanzé sono interessati a loro e cercano di ricostruirne il passato e di valutarne le capacità cognitive (in maniera del tutto simile a come, in quegli anni, gli scienziati umani facevano con le scimmie antropomorfe, studiandone le capacità di imitazione e di linguaggio). In breve, queste scimmie trattano Taylor e compagni non diversamente da come noi umani abbiamo fatto – e in parte ancora facciamo – con loro, talvolta mettendo in dubbio, come spesso accade nel film, la stessa teoria dell’evoluzione. Nel bellissimo finale, Taylor – in fuga verso la libertà – cavalca sulla spiaggia e, avvistando accasciata fra una roccia e il bagnasciuga la Statua della Libertà, emblema della nostra civiltà, realizza di essere tornato sulla Terra. Quando pronuncia la frase “Maledetti, maledetti per l’eternità!” lo spettatore capisce che l’uomo è riuscito, in soli venti secoli, ad autodistruggersi.
Ciò che cinquant’anni fa sembrava solo fantascienza sta purtroppo diventando realtà. In questo periodo di tempo sono stati investiti capitali enormi per andare nello spazio in cerca di altre forme di vita e ben poco si è fatto per le tante specie che rischiano di scomparire dal nostro Pianeta (noi umani inclusi). La ricerca etologica e le scienze cognitive hanno abbattuto le nette separazioni fra primati umani e non umani, mostrando una continuità inaspettata; la biologia evoluzionistica e l’antropologia hanno dimostrato il lungo percorso fatto in comune, e altre discipline hanno accertato l’estrema fragilità degli equilibri ambientali e l’impatto negativo che l’uomo esercita sul cambiamento climatico. Ma sapere queste cose ha cambiato a sufficienza il comportamento umano?
In alcune nostre ricerche abbiamo ad esempio dimostrato come i cebi dai cornetti – scimmie evolutivamente più distanti da noi delle scimmie antropomorfe – sappiano tenere conto del rischio insito in problemi decisionali e imparino a evitare le opzioni meno vantaggiose e come, nel Nord Est del Brasile, abbiano scoperto l’uso di strumenti litici (di pietra lavorata), proprio come i nostri antenati hanno fatto milioni di anni fa. Eppure noi umani continuiamo a giocare d’azzardo anche quando, in base al calcolo delle probabilità di vincita, non dovremmo farlo.
In Brasile un’economia dall’ottica ristretta distrugge l’habitat di queste scimmie per produrre soia e, nel mondo, la popolazione umana continua a crescere e a consumare come se fosse davvero a portata di mano la possibilità di raggiungere un pianeta alternativo alla Terra. Che ottusità. Neanche l’invettiva “Maledetti, maledetti per l’eternità” ci ha aperto gli occhi. L’affannosa corsa per dominare un pianeta da noi reso sempre più fragile non ci farà ritrovare, come Taylor, al punto di partenza?v
Elisabetta Visalberghi e Elsa Addessi [Da Almanacco della Scienza N. 4 – 24 feb 2021]