Di Rita Bugliosi
Questo processo, la cui denominazione è dovuta a Luis Pasteur che fu il primo a sperimentarlo, rende i prodotti sicuri e conservabili per lungo tempo, grazie alla loro esposizione a una temperatura di 72°C per circa 15 secondi. A illustrarlo è Concetta Montagnese dell’Istituto di scienze dell’alimentazione del Cnr
La lavorazione e la trasformazione dei cibi sono state fondamentali nel favorire lo sviluppo della civiltà umana e, sebbene si tratti di processi verificatisi soprattutto nel ’900, già nel secolo precedente c’erano state innovazioni importanti. Una svolta significativa in questo ambito è stata la pastorizzazione, il cui nome si deve al chimico Luis Pasteur, che la sperimentò per la prima volta nel 1862, scoprendo che il vino poteva essere conservato a lungo se veniva riscaldato a 60°C per alcuni minuti. L’applicazione della pastorizzazione al latte è stata proposta successivamente, nel 1886, da Franz von Soxhlet; c’è stato quindi un susseguirsi di innovazioni, che, a partire dagli anni ’20 del ’900, ha portato alla produzione di latte pastorizzato in bottiglia di vetro su scala industriale.
“La pastorizzazione permette la trasformazione degli alimenti freschi al fine di farne prodotti sicuri e a lunga conservazione. In particolare, la pastorizzazione del latte consiste nella sua esposizione a una temperatura di circa 72°C per un breve periodo di tempo (15 secondi), e questo provoca l’abbattimento della quasi totalità dei microrganismi patogeni”, spiega Concetta Montagnese dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr.
A seconda dei diversi tipi di trattamento, oggi sono in commercio vari tipi di latte pastorizzato, come chiarisce la ricercatrice: “Ci sono: il latte fresco, pastorizzato entro le 48 ore dalla mungitura, che può essere conservato fino a 6 giorni in frigorifero; il latte fresco pastorizzato di alta qualità, sottoposto a un trattamento termico più blando rispetto alla comune pastorizzazione, partendo da una materia prima migliore e che contiene una maggiore quantità di sieroproteine non danneggiate dal calore; il latte pastorizzato ad alta temperatura, pastorizzato a 80-135°C per un secondo, che può essere conservato fino a 25-30 giorni; il latte microfiltrato, filtrato cioè attraverso membrane apposite che allontanano gran parte della flora microbica originaria, e poi pastorizzato a temperature più basse rispetto al latte non filtrato, prodotto che può essere conservato fino a 10-15 giorni in frigorifero”.
L’applicazione della pastorizzazione al latte è stata determinante per la nostra salute e per garantirci una nutrizione sana. “Questo alimento è un’importante fonte di proteine ad alto valore biologico; di grassi, la cui quantità varia in base al tipo di trattamento di scrematura; di zuccheri, tra i quali il lattosio è il più presente; di micronutrienti, quali ad esempio il calcio, minerale importante per la salute delle ossa”, continua l’esperta del Cnr-Isa. “Risponde quindi a esigenze di fabbisogni nutrizionali in fasce di età diverse; le linee guida italiane per una corretta alimentazione ne suggeriscono il consumo giornaliero di 2-3 porzioni, corrispondenti a 125 ml di latte o 125 g di yogurt”.
Diverso dal latte pastorizzato è quello sterilizzato. “In questo caso, è sottoposto a calore e tempi maggiori rispetto alla pastorizzazione e questo trattamento abbatte, oltre ai microrganismi patogeni, anche le spore, consentendo una conservazione più lunga a temperatura ambiente”, continua Montagnese. “Si parla di latte sterilizzato se viene riscaldato a 120°C per circa 20 minuti e di latte sterilizzato ultra high temperature (Uht) quando è riscaldato a 131-150°C per 1-5 secondi”.
Non bisogna comunque pensare che le alte temperature alle quali il latte crudo viene sottoposto nella pastorizzazione causino la perdita di composti importanti. “Questo processo permette di ridurre i rischi per la salute senza alterare le caratteristiche fisiche, chimiche e organolettiche del prodotto, dal momento che provoca una perdita molto contenuta dei nutrienti, ossia una minima riduzione di vitamine del gruppo B, a fronte di un beneficio importante: la sicurezza in termini sanitari”, continua Montagnese. “Il latte crudo che non ha subito alcun trattamento termico, invece, può contenere microrganismi patogeni in grado di provocare malattie nell’uomo, presenti per un cattivo stato di salute dell’animale o per possibili contaminazioni legate alla mungitura, alla raccolta, alla lavorazione, all’immagazzinamento e alla distribuzione. Tra i principali batteri pericolosi può presentare Campylobacter, Salmonella e vari ceppi di Escherichia coli”.
Va detto che negli ultimi anni è cresciuto l’interesse da parte dei consumatori per il latte crudo. A questo proposito, il nostro Ministero della salute ha disposto l’obbligo da parte di quanti lo producono di informare il consumatore circa le corrette modalità di consumo. “Le norme UE regolano l’immissione sul mercato di latte crudo destinato al consumo umano, alcuni stati membri – tra i quali l’Italia – ne prevedono la vendita tramite distributori automatici che riportano l’indicazione chiaramente visibile ‘Prodotto da consumarsi solo dopo bollitura’. Il rischio non va trascurato, specialmente nei gruppi di popolazione più vulnerabili”, conclude la ricercatrice del Cnr-Isa.
[Almanacco della Scienza No. 9, ottobre 2023]