Recensione di Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
Capita a volte che lo spettatore sia colto da qualche perplessità riguardo alle regie teatrali d’Opera. Sono divenute spesso talmente insolite, trasposte arbitrariamente in termini temporali, cinematografiche, che trovarsene davanti una “regolamentare” e ambientata nel “tempo” richiesto dal libretto diventa gradevole, ma perfino inconsueto. In effetti, però, c’è regia e regia anche in questo caso.
Se è pur vero che ormai, perfino nelle recensioni, si cita prima il nome del regista e poi quello dell’autore dell’Opera, e lo si chiama “direttore” nominandolo prima anche del direttore d’orchestra, è vero pure che tale “direttore” debba dirigere ormai cavalcando la cresta dell’onda della qualità, o si troverà sommerso. Dunque in questa sede, per questa volta, si fa una deroga alla canonica disposizione dei protagonisti e si accenna per prima alla regia.
Questo perché una regia teatrale statica con interpreti che non abbiano una fisicità flessuosa e reattiva, come si è visto nella Manon Lescaut di Giacomo Puccini al Teatro Regio di Torino il 14 marzo 2017,, non rende merito agli stessi. Anzi! Proprio per questo, il regista Vittorio Borrelli avrebbe dovuto congegnare il lavoro non solo facendo attenzione alle masse, ma in modo soprattutto da evitare per i protagonisti l’effetto “fai da te”. Se avesse “diretto” gli interpreti principali in maniera più dinamica e meno rilassata, lasciando loro meno spazio all’improvvisazione personale, non avrebbe potuto che giovare ai professionisti in scena ed all’intero spettacolo.
Si tornerà sull’argomento, ma è il momento di parlare del vero “direttore” dell’opera pucciniana, quello che stava sul podio: il M° Gianandrea Noseda. I suoi chiaroscuri sono stati curati con estrema attenzione, alla guida dell’ottima orchestra del Regio, pur sembrando rimanere emotivamente in superficie in alcuni punti, in particolare nel celeberrimo Intermezzo, diretto come un pezzo solo sinfonico e dunque con uno spirito non del tutto aderente all’affondo emotivo che questo richiede rispetto alle altre parti dell’opera. Forse un po’ troppo tecnico, il Maestro sembrava in piena empatia con l’orchestrazione pucciniana più che con lo spirito dell’opera: si è beato ad esaltare la perfezione della partitura, a volte trascurando un po’ il cuore. Al debutto nella direzione della Manon Lescaut, il M° Noseda ha però retto con ottimo polso l’intero spettacolo e dato sicuramente grande appoggio agli interpreti sul palcoscenico, seguendoli in maniera ammirevole e mai sovrastandoli con le sonorità pucciniane proprompenti, che ha saputo ben tenere a bada.
Giungendo alle voci, si rileva, se ce ne fosse bisogno, come Maria José Siri, Manon Lescaut, abbia una voce dal colore particolarmente scuro. E’ quanto di più adorabile ci sia in un soprano, quando poi, come lei, si sia capaci di raggiungere picchi acuti con uno squillo impensato in una voce così brunita. Dunque in quest’opera, soprattutto al secondo atto, la sua vocalità non viene esaltata dal carattere giocoso richiesto dalla partitura al soprano. Inserita in tale contesto, anche la celeberrima “In quelle trine morbide” si rivela poco entusiasmante da cantare per il soprano uruguyano, che ha un gran temperamento e gran desiderio di sfoderarlo con costanza nell’intero arco dell’opera. Appena si toccano le corde del dramma, infatti, ecco i brividi, tutta l’intensità, tutta la proiezione, in un’opera in cui al quarto atto “Sola…perduta…abbandonata…” si è dimostrato un vero pezzo di bravura che sembrava fatto apposta per lei.Gregory Kunde, De Grieux, si presenta e ripresenta a stupire l’ascoltatore con la freschezza di una voce che nel tempo ha subito una metamorfosi sorprendente e che adesso lo vede debuttare in Italia in questo ruolo pucciniano, lui che è partito dai sovracuti squillanti di Bellini. Molto bravo, Il Kunde, sempre. Ineccepibile vocalmente, con una rotondità come rinnovata ed uno squillo che comunque è ancora il suo pezzo forte.
A questo punto, chi scrive non ritiene di avere doti di preveggenza, ma dire che aveva previsto fin dall’inizio un grande quarto atto, conoscendo bene le doti vocali di entrambi gli interpreti è dire il vero. Sono dei grandi solisti e lo hanno dimostrato proprio da solisti.
Apprezzabile vocalmente il Lescaut di Dalibor Jenis, gradevole il Geronte di Carlo Lepore, altrettanto l’Edmondo di Francesco Marsiglia, corretti gli altri interpreti, fatta eccezione per il lampionaio Cullen Gandy, un po’ debordante vocalmente.
Per tornare al momento opportuno alla regia di Vittorio Borrelli, a cui sopra si accennava, pur considerando positivamente il fatto che che, dal punto di vista registico, quello di Torino sia stato il primo atto della Manon Lescaut più “ordinato” che chi scrive abbia mai visto su un palcoscenico, con un Coro mai chiassoso, a onor del vero, e molto ben calibrato dalla direzione di Claudio Fenoglio, allo stesso modo, si considera meno positivo il fatto che l’ultimo atto sia stato il meno aderente a quell’interiorizzazione che invece la musica ed il canto dovrebbero imporre alla regia.
Il regista ha poi reso il fratello Lescaut curiosamente accudente la sorella, al finale del terzo atto: dopo avergli fatto abbracciare i due amanti disperati che partono per le Americhe, gli ha fatto accennare perfino un saluto con la mano, da lontano. Sembrava la partenza per una crociera, non una scena di deportazione. Il libretto, invece, recita tutto il contrario: “Lescaut, in disparte, guarda, crolla il capo e si allontana”. A parte il fatto che si capiva che si trattasse del porto di Le Havre solo dall’albero di trinchetto del veliero che occhieggiava nel buio dello sfondo. Il momento del dirigersi verso la nave è decisamente il più emozionante ed è mancato, anche per la concezione scenica ideata da Thierry Flamand, per il resto positivamente ortodossa.
Così come è mancata la giusta illuminazione, soprattutto al quarto atto, facendo morire Manon in una landa visivamente piatta, sotto le luci troppo accese e con i pochi charoscuri di Andrea Anfossi. L’intero spettacolo non godeva nel complesso di luci che rendessero piena giustizia all’azione scenica, nonostante la diversificazione dei quattro atti, ciascuno illuminato in maniera anche simbolica. In compenso, i costumi di Christian Gasc erano gradevoli e curati. Finalmente, alla frase di Lescaut al primo atto “Ecco il vostro tricorno!”, Geronte si è visto porgere davvero un tricorno e non un cappello stile borsalino.
Una Manon Lescaut apprezzabile , quindi, nel complesso, e debitamente applaudita dal pubblico torinese, nonché trasmessa in diretta nei cinema di alcune città fortunate e in semi-differita da RAI 5, che ha graziato molti telespettatori internauti concedendo anche lo streaming di questa prima dal Teatro Regio.
Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
PHOTOS © Ramella & Giannese | Teatro Regio Torino