Thursday, November 21, 2024

“L’isola delle lacrime” di Giulia Poli Disanto e le perle della Pietas

Il 9 settembre scorso, per commemorare i concittadini periti nella tragedia dell’11 settembre 2001, si è tenuta a Yonkers, negli Stati Uniti, una cerimonia, alla presenza del Sindaco e dei familiari delle vittime. È stata scoperta una lapide a ricordo e gettata, nel fiume Hudson, una rosa per ogni scomparso. In quel contesto, Tiziano Thomas Dossena, Direttore Editoriale de “L’Idea Magazine” di New York e autore della Prefazione alla raccolta bilingue L’isola delle lacrime/The island of tears (Idea Press, New York, 2012) di Giulia Poli Disanto, ha presentato l’opera, con la lettura di due poesie. Parto da tale evento per delineare la struttura poematica del volume, tradotto in inglese da Nova Blain, docente residente in Puglia da molti anni.

Giulia ha a che fare professionalmente con le lingue straniere e, soprattutto, ha una lunga consuetudine a trarre spunti per la scrittura dalla realtà internazionale. Si pensi al libro Appunti di viaggio, 1999, basato sul soggiorno in Belgio, ma anche a Cara madre ti faccio sapere…, 2005, ricco di documenti e testimonianze dei santermani nelle guerre del ‘900. La sua bibliografia annovera le sillogi di poesia Nel cuore dello scorpione, 2002, L’utero di Dio, 2004, E nei tarocchi, 2009, e il romanzo La pelle del lupo, 2006.

Nelle occasioni celebrative, si ricorre alle liriche per scuotere gli animi. Per eternare un ricordo basta un verso ben scritto. Consapevoli della funzione civile della comunità poetante, ci addentriamo in una raccolta luttuosa e gioiosa al tempo stesso.

La notizia dell’attentato al World Trade Center, fece in breve il giro del mondo e gettò tutti nello scompiglio. Pur nello sconforto, capimmo che niente sarebbe stato più come prima e che persino una superpotenza era attaccabile. Il dolore per la perdita delle 2.979 vittime ci affratellò e coltivammo la speranza. Questi sentimenti sono alla base del lavoro di Giulia che ha vissuto la stesura dei testi come fosse un destino. Le “dediche”, che scandiscono i fulminei avvenimenti, e la premessa ci scagliano addosso frammenti infuocati difficili da spegnere. L’Autrice considera la morte e inneggia alla vita, tessendo parole che rivolge agli estinti, ai sopravvissuti e ai loro familiari.

Il movimento ondulatorio della scrittura si avverte sin dalle prime pagine. New York e la Puglia sono in stretto contatto. L’esergo della poetessa alla madre è un modo per ancorarsi alle radici, sapendo di manovrare materia incandescente. Anche il soccorritore Albert Hickey, dopo la tremenda esperienza, troverà requie nelle braccia della genitrice.

Il prefatore evidenzia la genuinità dell’opera, definendola un’“ode agli innocenti e agli eroi”. Ne rimarca il lirismo, la fede, l’ammirazione dell’Autrice per la “Big Apple” che ha accolto fiumane di persone di ogni etnia e condizione.

Nella bellissima Introduzione, l’ex-detective Albert Hickey – il quale partecipò alla raccolta delle macerie – riferisce che, in quel disastro, la perdita di amici e colleghi e il tanfo della morte gli causarono un profondo senso di vuoto: “C’era troppa morte nell’aria per poterla assorbire mentalmente in un colpo solo”. Qualche anno dopo, in visita a Ground Zero, egli si ripromise di non scordare “gli eventi dell’Undici Settembre” e di “tener viva negli altri la memoria di quel giorno fatidico”. Il dovere, la solidarietà e la memoria nobilitano la sua cronaca, linguisticamente lineare e drammatica.

Se occorresse un esempio per rappresentare la scrittura di genere, questo libro sarebbe idoneo. I 29 componimenti, ciascuno di undici versi, abbracciano l’umanità sofferente. La creatività ingravida le parole, le alimenta nel cuore e nel grembo della poetessa che le espelle amorevolmente. Si tratta di sintagmi materni ed elegiaci. Un discourse che segue le tracce di due pubblicazioni della sottoscritta, Bucarest, 2001, e Città fucilata, 2007, a cui Giulia ha rivolto particolare attenzione.

L’isola delle lacrime si attesta su quattro assi essenziali: 1. la registrazione della tragedia (il crollo delle Torri Gemelle, l’attentato al Pentagono); 2. l’accoglienza del dolore; 3. il ricordo e il conforto; 4. la celebrazione della vita.

La pietas e il perdono – che contribuiscono alla femminilità dei testi – si librano come colombe sulle macerie delle Twin Towers. Un altro dato a supporto della tesi suindicata è la casa. Si è accennato alla mobilità della parola che oscilla tra New York e Santeramo. Il ricorso al quotidiano serve all’Autrice ad esorcizzare il male e a respirare l’aria rassicurante del suo ambiente. Attraverso la tranquillità poeticamente costruita, Giulia converte quasi sempre la condanna in perdono, nonostante calcinacci e polvere insanguinino i “bianchi fiorellini di settembre” del giardino. La sua oasi e la metropoli americana diventano “canto comune” (“La Grande Mela”).

Sicura che l’aquila volerà “più alta dopo la sconfitta” e la luce sconfiggerà le tenebre, la poetessa elogia New York, ne evoca i mitici personaggi (Dylan, Liza, Marilyn, Irving, Dickinson), richiama i simboli (il Ponte di Brooklyn, la Statua della Libertà, Times Square, Central Park, il fiume Hudson, la 5th Avenue), costruendo un “nuovo ponte” che unisca i due continenti.

La concezione cristiana della sofferenza le fa percepire un calvario di croci a cui offrire “preghiere e corone di fiori”. Il lettore si domanda: si allevia la pena con il canto? E, inoltre: che ne sarebbe della cenere dei giusti se con essa non riuscissimo a impastare i sogni?

Le vittime, nell’immaginario della poetessa, vanno a stormi verso l’azzurro. Lei ne interroga qualcuna come a sospenderne il viaggio. Sappiamo di Christian che vendeva vino, di Sophia proveniente dal Ghana, di Steven che voleva viaggiare, di Kenny la cui madre ha “ricomposto petali di carne” (“Il pianto dei poeti”). Ci sono le spose in attesa che “Si aggrappano all’unica gioia / Più tenera di una spiga di grano”. L’esaltazione della gravidanza rientra nei canoni della scrittura di genere.

La forza del “Canto Universale” dà compattezza ai testi, strutturati in due quartine e una terzina centrale. Si intuisce l’influenza dantesca nei versi. Vibrano corde che tendono a soffocare la morte: “Nel vento gelido / di New York / le anime erranti / Sono foglie palpitanti”. In più parti ricompaiono le metafore della casa e del giardino. In un’altra lirica l’Autrice scrive: “Le anatre del giovane Holden avevano costruito / Il nido sulle Torri e sotto il mio tetto” (“Io e Dylan”).

Educare al futuro travalica la rabbia e il rancore. La vanga, il coraggio e la fede concorrono alla rinascita. Lo scalpitio dei mustanghi è sinonimo di frenesia e della vita che non si arrende.

L’isola delle lacrime inizia con l’assalto alle Torri Gemelle, ma definisce – in certa misura – anche il ruolo dell’artista: “New York – New York / Quanti germogli nelle tue tenere zolle! / L’artista / Li nutre con voce dorata” (“Liza ed io”). I creativi devono elevare il territorio, pur sapendo che neppure i nidi delle rondini scampano al dolore.

L’onda di rappacificazione attraversa tutta l’opera. San Patrizio spalanca le braccia, i venti si conciliano, il pensiero trasmigra da Times Square alla dimora dove aleggia “Sulla soglia un profumo di basilico”. “Ellis Island” è anche il luogo dell’eterna giovinezza e dell’indignazione per “lo spirito crudele di chi commise il gesto”. Giulia mantiene intatta la leggenda di New York, perpetuandola con l’intreccio tra la vicenda narrata e il sentimento. Lei ambisce a “un nuovo giorno” e a “un nuovo verso”.

La lirica “Io sono il fiore” è tra le migliori del libro. Le parole sono carne e olezzo. Se al poeta riescono le metamorfosi, il sogno non muore.

La pietas sostanzia l’invocazione al Santo di Myra, affinché cosparga “i corpi con olio di Nardo”. Il pane e la primavera sono ostie che nettano l’anima, mentre le ombre si dileguano e la luce ritorna a inondare la città ferita.

Le immagini fotografiche di Daniel Portalatin e Leonardo Campanile accendono il ricordo del misfatto e condensano il senso civico del popolo americano.

La delicatezza espressiva, con l’assenza pressoché totale della punteggiatura, accompagna il lettore fino all’ultimo testo, dandogli la possibilità di apprezzarne il ritmo e la compostezza. Talvolta sembra di udire i nomi degli innocenti. L’isola delle lacrime è pure una lunga e accorata litania.

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