A Parigi, il 2 dicembre 1840, venne rappresentata per la prima volta La Favorite, del compositore italiano Gaetano Donizetti, che scrisse questo “grand opéra” appositamente per i francesi, riprendendo quasi integralmente la partitura L’Ange de Nisida, dato che si rendeva necessario terminare l’opera in brevissimo tempo. Ebbe un enorme successo, e già nel 1851 l’opera circolava in diverse lingue. La versione italiana presenta alcune differenze testuali e anche melodiche; questo si rese necessario, all’epoca, per motivi religiosi: era impensabile in Italia raccontare la storia di un monaco che rifiuta i voti per amore di una novizia, pertanto la narrazione, pur mantenendo le stesse dinamiche, comprende mutamenti al libretto molto importanti. La “prima” italiana andò in scena al Teatro Nuovo di Padova nel giugno del 1942, con il titolo variato in Leonora di Guzman, raccontando una storia al riparo dai pericoli della censura e quindi anche da un eventuale rifiuto del pubblico: l’amore sacrilego viene ridotto a un più “italiano” scontro di famiglia, fra suocero inviperito e il genero fedifrago. Successivamente un’altra versione più vicina all’originale, ma ambientata non in Castiglia ma in Siria, debuttò a Milano con il titolo La Favorita.
La prima stesura che andò in scena in Francia non fu comunque la definitiva: già durante le prove vennero effettuate modifiche da Donizetti stesso, e tali ritocchi compositivi continuarono successivamente sia dopo la prima rappresentazione, che dopo la partenza del compositore da Parigi. Variazioni spesso sostanziali, per esempio una cabaletta alternativa, un’altra scartata, cadenze vocali diverse. In particolare fu la riduzione per pianoforte di R. Wagner che mise in luce le varie differenze che vennero effettuate già nei primi mesi successivi alla “prima”.
È la versione originale francese che è in scena dal 6 al 21 maggio 2016 al Teatro la Fenice, quattro atti su libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz e Eugène Scribe.
La collocazione temporale e geografica nel libretto è molto precisa: siamo nel regno di Castiglia, anno 1340. Le scene sono minuziosamente descritte nel libretto, per esempio, l’estremità di una delle gallerie laterali del monastero di San Giacomo, dove inizia la storia:
“L’extrémité d’une des galeries latérales entourant le couvent de Saint-Jacques de Compostelle. A droite on aperçoit, à travers la colonnade de la galerie, les arbres et les tombes du cloître. A gauche, se trouve l’entrée de la chapelle qui renferme les reliques de saint Jacques. Au fond un mur d’enceinte, où s’ouvre une grille”
per proseguire nella baia di Cadice:
“Un site délicieux, sur le rivage de l’Ile de Léon. Des jeunes filles sont groupées sur le bord de la mer et emplissent de fleurs des corbeilles, des esclaves suspendent aux branches des arbres de riches étoffespour rendre l’ombrage plus épais; d’autres jeunes filles unissent des danses aux chants de leurs compagnes”
e poi a Siviglia nei giardini e nelle sale dell’Alcazar:
“Un galerie ouverte, à travers laquelle on aperçoit l’Alcazar et ses jardins. Le cloître du couvent de Saint-Jacques de Compostelle. A droit, le portique de l’église; en face, une grande croix élevée sur un socle de pierre. Ça et là des tombes et des croix de bois. Le jour naissant éclaire seulement la partie découverte du cloître; les premiers plans sont encore obscurcis par les ombres que projettent les murs de l’église.”
per finire di nuovo nel convento, dove la protagonista troverà il perdono e la morte.
La modernissima scenografia di Massimo Checchetto stravolge visivamente tutte le scene: il convento viene trasposto in una futuristica installazione che ricorda una tavola pitagorica: i monaci, unici detentori degli ultimi reperti naturali custodiscono gli stessi in apposite ampolle all’interno di questa installazione, successivamente giovani fanciulle si ritrovano sulle rive del fiume rappresentato da pallide immagini sullo sfondo e massi rocciosi che appaiono volutamente di plastica, così come le sale dell’Alcazar hanno muri di plastica trasparente all’interno delle quali si muovono i cantanti e risiede il trono del Re dello stesso materiale. Belli, anche se ai limiti della fantascienza, i costumi disegnati da Claudia Pernigotti.
Ovviamente chi ama l’opera in senso tradizionale resta decisamente un po’ freddo di fronte queste immagini deprimenti; inoltre chi si aspettava i balletti, tipici del grand’opèra, in quest’opera previsti nel secondo atto, rimane profondamente deluso: vediamo due sole fanciulle in abiti sgargianti agitarsi in uno spazio ristretto e nel quale muoiono entrambe. La regia di Rosetta Cucchi è chiaramente dalla parte della figura femminile, ed evidenzia un re libertino e più dedito ai piaceri della carne, che alle battaglie per difendere il regno, ma che non esita a cedere la favorita al novizio innamorato, pur di non incorrere nella scomunica papale.
La freddezza della rappresentazione scenica viene riscaldata sin dalle prime note dalla potente e precisa direzione di Donato Renzetti. Trascurando qualche eccesso nei volumi, rileviamo precisi colpi d’arco, suoni cristallini e ben definiti, tutti perfettamente a tempo e ben concertati, e l’orchestra viaggia come su binari, seguendo alla perfezione la magnificenza della partitura di Donizetti; lo stesso fanno i cantanti, voci ben scelte e amalgamate, che seguono con apparente facilità la “grandiosità drammaturgica” di quest’opera.
John Osborn, tenore, è il novizio Fernand: con una tecnica da antica scuola italiana, domina la tessitura particolarmente acuta scritta da Donizetti per il protagonista, con perfetto equilibrio tra liricità e drammaturgia, con acuti potenti, dinamiche agilità e filati sussurrati ben tenuti e perfettamente udibili che rapiscono l’uditore. Da tempo non sentivamo un’interpretazione così pulita, priva di inutili portamenti o eccessivi virtuosismi, ma nello stesso tempo potente e coinvolgente. Notevole e degno di lode l’acuto che ha sfoggiato nel finale del terzo atto e che ha lasciato senza fiato lo spettatore.
La coprotagonista, Lèonor, non è da meno: Veronica Simeoni, giovane mezzo soprano, in questa serata è stata ricca ed espressiva nella linea di canto, voce bruna la sua e ben salda nella parte per tutta l’opera, anche se abbiamo avuto l’impressione che fosse più “trattenuta” rispetto alla performance della prima del 6 maggio.
Pauline Rouillard è Inès, amica e confidente di Lèonor, al suo debutto in questo teatro, è definita da molti l’usignolo della Provenza, infatti ha sfoggiato una bella voce, non potentissima ma da bel soprano di coloratura, e si è rivelata perfetta per questa parte, con una buona esecuzione interpretativa.
Il combattuto e tormentato re Alphonse XI è reso in modo elegantissimo da Vito Priante. Rileviamo in questo giovane baritono una raffinata classe nei cantabili, di buon gusto, con interpretazione vocale e drammaturgica impeccabile. L’intensità della sua linea vocale è arrivata in sala prepotentemente ma con gusto, privo di vizi vocali e sempre intonatissimo, sfruttando anche l’arte teatrale che per il suo ruolo regale non è dispiaciuta al pubblico. Bravo!
Una profonda voce da vero basso, è quella che arriva in ogni angolo del teatro (talvolta forse un po’ troppo “spinta”), con buon fraseggio e dizione da parte di Simon Lim, che ha indossato i panni di Balthazar, e lo stesso si può dire del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas (Don Gaspar) che è riuscito bene a immedesimarsi nella figura del “cattivo” di turno.
Coro del Teatro La Fenice a perfetto agio: emozionanti i canti fuori scena dei monaci che nel finale scavano le loro tombe:
“Frères, creusons l’asile où la douleur s’endort”.
Un notevole spettacolo dunque, merito soprattutto degli interpreti e dell’orchestra: una rappresentazione scenica meglio collocata in uno spazio temporale più preciso e con un aspetto meno asettico e cupo, avrebbe avuto maggior risonanza, per questa sontuosa opera che mescola perfettamente sensibilità francese e poeticità italiana, e che negli ultimi anni ha avuto poco riscontro nei cartelloni dei teatri italiani.