Leonard Bernstein (1918 – 1990) 25° anniversario della morte
Musicista, compositore, direttore d’orchestra
Per ricordare il grande Compositore e Direttore d’Orchestra scomparso venticinque anni fa, vogliamo tracciare la sua vita e le tappe professionali che lo hanno visto protagonista indiscusso del xx secolo.
Leonard Bernstein (Lawrence, Massachusetts, 1918) è stato un compositore, direttore d’orchestra, critico, pianista e divulgatore statunitense. Allievo di Walter Piston per la composizione e di Fritz Reiner per la direzione d’orchestra, fu forse la più influente figura di musicista della seconda metà del Novecento. Il suo lavoro come compositore, in particolare nelle sue partiture per i “musical” prodotti da Broadway, come “West Side Story” e “On the Town”, hanno di fatto creato un ponte fra la musica cosiddetta (con un termine errato e generico), “classica” e quella “popolare”.
Nei suoi lavori più impegnati, invece, si è mostrato legato ad un’ispirazione di stampo neoromantico, all’uso dell’ormai “antiquata” tonalità e sensibile al folclore nordamericano. Tutte cose che gli hanno attirato, per un lungo periodo, gli strali degli esponenti dell’avanguardia e che lo hanno fatto giudicare un musicista di seconda fila.
A ventun’anni, andò al Curtis Institute di Philadelfia per studiare pianoforte con Isabella Vengerova, orchestrazione con Randall Thompson e appunto direzione d’orchestra con Fritz Reiner. Secondo una sua testimonianza diretta, è proprio allora che cominciò a considerare le partiture dal punto di vista della direzione orchestrale, dove fino a quel momento, da perfetto studente di Harvard orientato più che altro all’analisi particolareggiata, le aveva considerate o dal punto di vista del pianista o da quello del compositore. Insomma, prima di allora non aveva mai guardato un testo con l’idea di dirigerlo.
A partire dai suoi studi con Reiner, invece, Lenny (come viene chiamato dai sui fan), ha sempre avuto l’obiettivo, si potrebbe dire il chiodo fisso, di “identificarsi” con il compositore, ossia di sforzarsi di arrivare ad un grado di conoscenza dell’opera talmente elevato da avere la sensazione di esserne quasi diventato l’autore.
Ma sentiamo le sue parole dirette: “A parte questo, rimangono naturalmente molte altre cose da dire: per esempio, in che modo affronto lo studio di una nuova partitura, o anche di una partitura non nuova, perché, nel vero senso della parola, ogni partitura è nuova tutte le volte che ci si accinge a studiarla. Così, quando presi a rileggere la Nona sinfonia di Beethoven per la cinquantesima volta, dissi a me stesso che le avrei dedicato al massimo un’ora dopo cena, giusto il tempo di dare un’occhiata e di rinfrescarmi la memoria prima di andare a letto. Ahimè! Dopo mezz’ora, ero ancora a pagina due. Ed ero ancora alle prese col sacro testo alle due del mattino, e – badi bene [rivolto all’intervistatrice, N.d.r.]- non certo vicino al Finale! Ero ancora fermo all’Adagio, rapito in mezzo alle stelle, perché vi stavo trovando un’infinità di cose nuove. Era come se non l’avessi mai vista prima. Naturalmente, ricordavo tutte le note, come pure tutte le idee, la struttura, perfino il suo mistero. Ma c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, e non appena trovi una cosa nuova, ecco che le altre ti appaiono come sotto una luce diversa, perché la novità altera la relazione con tutto il resto. È impossibile immaginare quante cose nuove ci sono da scoprire, specialmente in Beethoven, che fu particolarmente vicino a Dio e uno dei compositori dalla personalità più ricca che siano mai esistiti…”
Il suo leggendario debutto avvenne il 14 Novembre 1943, in sostituzione di un mostro sacro come Bruno Walter (celeberrimo musicista, pupillo fra l’altro di Gustav Mahler). Walter doveva tenere un concerto alla Carnegie Hall ma all’improvviso accusò dei malori, motivo per il quale dovette essere sostituito all’ultimo minuto. Sul podio venne chiamato lo sconosciuto Bernstein, allora appena venticinquenne. L’esecuzione (trasmessa oltretutto via radio), sbalordì i presenti e ricevette critiche entusiastiche, tanto da lanciare Lenny nell’empireo delle giovani promesse da seguire (aspettative poi ampiamente mantenute…).
Il 1951 è invece l’anno della successione alla guida stabile della New York Philarmonic dopo la morte di S.A. Kussevitzky, altro direttore dal forte carisma. Nello stesso anno sposò l’attrice e pianista cilena Felicia Montealegre (con la quale ha curato esecuzioni di musica con voce recitante, fra cui “Parable of Death” di Lucas Foss e “Jeanne d’Arc au bûcher” di Honegger), la stessa che compare ritratta nella copertina del celebre disco del “Requiem” di Mozart, inciso proprio in ricordo della scomparsa di Felicia (evento che, quando avvenne, gettò Lenny nella più cupa disperazione).
Dal 1958 al 1969 Bernstein è stato dunque direttore stabile della Filarmonica di New York (più di qualsiasi altro direttore), periodo a cui si devono esecuzioni memorabili, molte delle quali documentate dalle tantissime incisioni realizzate. Al contrario di altri artisti sommi (come ad esempio Arturo Benedetti Michelangeli o Sergiu Celibidache), Bernstein, infatti, non fu mai ostile all’incisione e anzi si può dire che egli fu uno dei più assidui frequentatori delle sale di registrazione, non tralasciando nemmeno, quando le nuove tecnologie stavano prendendo piede, le riprese video o le dirette televisive. In questo è molto simile al suo collega d’oltreoceano Herbert von Karajan.
Professore di musica alla Brandeis University dal ’51 al ’56, è stato anche il primo direttore americano invitato alla Scala per dirigere opere italiane: “Medea” (1953), “Boheme” e “Sonnambula” (1955). Nel ’67 è stato insignito della medaglia d’oro della “Mahler Society of America” (non dimentichiamo che è stato uno dei più grandi interpreti di Mahler del Novecento…), e, nel ’79, del Premio UNESCO per la musica. Dal ’61 è stato membro del National Institute of Arts and Letters.
Dimessosi dalla carica di direttore stabile, si dedicò soprattutto alla composizione anche se, con il tempo, riprese a dirigere, senza però legarsi ad una qualche orchestra particolare. Anzi, questo periodo di “libertà” è famoso per le realizzazioni effettuate con le più blasonate compagini mondiali, fra cui spiccano, in particolare, i Wiener Philarmoniker. Sul piano discografico, per gran parte della sua carriera, incluso il suo leggendario periodo passato a capo della Filarmonica di New York, Bernstein ha inciso esclusivamente per la Columbia/CBS Masterworks (etichetta ora acquisita dalla Sony Classical), e ha collaborato con i più grandi solisti e cantanti in circolazione. Dall’iconoclasta Glenn Gould (la loro esecuzione del secondo di Brahms è un vero e proprio “caso” della storia della musica), al più ortodosso (ma sempre profondissimo) Zimerman; dalla cantante Janet Baker (gli struggenti, insostenibili, “Kindertoten Lieder” di Mahler) al violinista Isaac Stern (il Concerto per violino di Beethoven).
Riassumere l’intera attività di Bernstein è davvero un’impresa ardua. In sintesi, si può dire che questo musicista rappresenta quanto di meglio la musica abbia prodotto nel corso del Novecento. Non solo Bernstein ha contribuito, insieme a pochissimi altri (fra cui, naturalmente, Gershwin) alla costituzione di una forma di teatro tipicamente americana autonoma e originale rispetto al Melodramma, ma si è anche posto fra gli esecutori più geniali che mai siano apparsi sul podio (e impressionante è, in questo senso, il divario fra certa sua natura “leggera” e lo spirito vibratile, dissolutorio, con cui affrontava le partiture orchestrali. Si ascolti il nichilistico finale della Nona di Mahler). Lenny ha saputo così fondere, in una miscela che non cade mai nel cattivo gusto o nella faciloneria, la musica colta di tradizione europea e i linguaggi peculiari tipicamente americani fra cui, oltre al già di per sé “colto” jazz, anche quelli del musical e della ballad (come nel balletto “Fancy Free” o nell’opera comica “Candide”).
Indimenticabile ad esempio il suo “West Side Story”, una rivisitazione in chiave moderna dello scespiriano Romeo e Giulietta, zeppo di canzoni memorabili e dove, al posto dei Capuleti e dei Montecchi vi si narra lo scontro fra bande di portoricani nella New York di fine anni cinquanta. E per chi avesse dei dubbi sulle sue capacità di pianista, si rimanda caldamente l’ascolto dei quintetti di Shumann e di Mozat incisi con il Julliard quartett.
Infine, Berstein è stato uno dei più insigni ed efficaci didatti mai esistiti. Insuperabili sono rimaste le sue lezioni dirette al pubblico giovane o dei bambini, trasmesse dalla televisione americana (i cosiddetti “Philharmonic’s Young People’s Concerts”). Documenti di altissimo livello (sebbene mai accademici), in cui si osserva davvero un genio all’opera. Questi concerti, e le conversazioni che li accompagnavano, furono ideati, scritti e presentati in TV interamente da lui e attraverso di loro un’intera generazione di americani ha scoperto e visto crescere in sè l’amore per la musica.
I suoi lavori “impegnati” comprendono invece la “Jeremiah Symphony” (1942), “The Age of Anxiety” per pianoforte e orchestra (basata sull’omonima poesia di W.H.Auden), (1949), la “Serenata per violino, archi e percussioni” (1954), la “Messa”, composta per l’inaugurazione del Centro John F. Kennedy per le Arti dello Spettacolo a Washington (1971) e “Songfest” per sei voci soliste e orchestra (1977). Ha scritto l’opera “Trouble in Tahiti” (1952), e oltre alla già ricordate commedie musicali, non sono da dimenticare i lavori sinfonico-corali come “Kaddish” (1963) e “Chichester Psalms” (1965). Molta anche la musica di scena e per film. Tanto per non farsi mancare niente, infatti, Bernstein ha anche vinto un Oscar per la migliore colonna sonora del film “On the waterfront” (“Fronte del porto”).
Ha dichiarato: “Dopo le esecuzioni che io chiamo buone (un’esperienza incredibile come se componessi in quel momento…), devono passare alcuni minuti prima che riesca a ricordare dove mi trovo, in quale sala o teatro, in quale Paese, o chi sono. Una sorta di estasi che corrisponde in tutto e per tutto alla perdita di coscienza“. Non sarebbe comunque giusto passare interamente sotto silenzio il Bernstein divo, l’amico delle star e dei produttori di Broadway e di Hollywood nonché di scrittori e drammaturghi, di capi di stato e di cancellieri. «E’ un tormento degno di Amleto essere un vero progressista», sospirò esasperato dopo l’ammirazione entusiastica che aveva suscitato un party da lui dato in onore di un gruppo di Black Panters. Grazie alla diretta conoscenza di questo mondo, a lui si deve il neologismo “radical-chic”, parola con cui soleva indicare i personaggi della sinistra nuovayorchese usi a ritrovarsi, un po’ snobisticamente, nei più prestigiosi salotti della città.
Leonard Berstein si è spento dopo una lunga malattia (era fra l’altro un incallito fumatore), nel 1990, lasciando un vuoto incolmabile di fantasia e di creatività, ma anche di profondità e di serietà, nell’approccio di quella grande arte che si chiama Musica, arte che in lui non avrebbe potuto trovare miglior servitore.
[Le dichiarazioni di Bernstein sono tratte dal volume “Maestro”, a cura di Helena Matheopulos, Vallardi editore]
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