Recensione di Marina Agostinacchio
Ogni tanto mi capita di riaprire il libro delle poesie di montagna di Federico Tosti, curato da Tiziano Dossena.
Proseguendo il cammino esplorativo del ricco testo poetico, desidero ora porre l’accento su alcune liriche della sua seconda sezione dal titolo “Fiori Arpini”.
La prima lirica porta una dedica “Alla mia Assunta”.
La terzina d’apertura è un vero e proprio inno d’amore; il poeta infatti scrive di fiori colti perla sua Assunta in alta montagna, nel silenzio che favorisce l’intimo colloquio con il Creatore
I fiori si pongono, pertanto, quale viatico tra l’amore umano e quello del buon Padre celeste, direi, anzi, come simbiosi espressiva dell’essere umano, corpo unico di psiche, sentire, emozione, pensiero, spirito.
Te porto pe’ rigalo, amore mio,
’sti fiori qui che nun hai visti mai.
L’ho cȏrti su li monti, in arto assai,
mentre che stavo su, solo, co’ Dio.
I fiori paiono divenire metafora della salita, della conquista, dell’ascesa verso l’Amore puro, che può dare significato e pienezza al sentimento autentico terreno. Essi, i fiori, portano parole, messaggi segreti, sono ponti tra le “notti stellate, le acque canore, le musiche del vento”.
Loro te parleranno ar sentimento
de le notti stellate e te diranno
d’acque canore e musiche der vento.
Potremmo parlare di linguaggio dei fiori? Un alfabeto dal codice che sa svelarsi solo a condizione di sapersi fare umile, semplice e sotterraneo, nel senso di una verticalità che consacra l’uomo a creatura tridimensionale, nella sua unità (fisica, psichica, spirituale), capace di dialogare con una Voce interiore che lo trascende e che lo pone in una sfera di progettualità di finalità e di speranza.
Il procedimento stilistico con cui procede Tosti nella sua architettura testuale parte dall’osservazione generale di un paesaggio a un restringimento del campo visivo, “un occhio, uno zoom” su forme e colori floreali. Così, in “Forita”, il poeta osserva la distesa di fiori tra l’erba, fiori che fanno da corona alla sorgente, fiori nell’onda dell’acqua che scorre.
Quanti fiori tra l’erba! Quanti fiori
vicino all’acqua, attorno a la sorgente!
Quanti a specchiasse drento a la corrente
e che armonia de luci e de colori!
Quand’ecco apparire come in un tripudio canoro e cromatico, quasi tratto dal mondo della fiaba
“un ciuffo di un colore ardente” e poi altri bianchi e azzurri.
Eccone un ciuffo d’un colore ardente;
là, quelli bianchi, regneno signori;
le soldanelle azzurre drento e fôri
punteggeno la riva der torrente.
La metafora domina, mai disgiunta dalla relazione parola-immagine di rimando. Quei fiori “bianchi, regneno signori,” ci dice il poeta, a rendere chiaro un pensiero, semmai fosse necessario, del colore per eccellenza, rimando a un valore superiore, universale, eterno.
Ecco, un fioretto come ‘na campana:
azzurro come er celo su li monti,
che splenne contro er sole: la genziana.
Nella terzina seguente, viene ripresa la descrizione del particolare su tutto un paesaggio: la genziana come una campana, come un cielo azzurro, che risplende di fronte al sole luminoso, perché baciato da questi.
È un viaggio, quello per cui Federico Tosti ci conduce per mano, a misura di un pellegrinaggio didascalico dantesco nei cieli di un immanente paradiso; le creature si specchiano nel Sole più alto e vivono di luce che si rimandano l’un l’altra. Esse paiono ruotare in splendore su sé stesse attraverso le parole del poeta, volte ad innalzarli, i fiori, a dignità cosicché il lettore li sappia vedere, “leggerli”, attribuirne significati.
Nella terzina finale il poeta riprende la composizione stilistica secondo una visione generale del racconto.
Oh! Fiori belli, sparsi tutti in giro
p’er prato, fra li sassi, pe’ le fonti,
io v’abbraccio co’ l’anima e sospiro!
Nella poesia “In Montagna”, la salita è faticosa ma anche “Benedetta”. All’ immagine del piede che lento lento si arrampica sulla roccia è contrapposta quella astratta dell’anima e del cuore, arco e saetta.
Pe’ prati e boschi, poi de roccia in roccia
salisco la “Montagna” benedetta.
L’anima è un arco, er côre la saetta
mentre che er piede lento lento approccia.
Nella seconda e terza strofa sono di scena, oltre le visioni, i suoni, le sensazioni tattili; tutto si compie nel canto di un ruscello in fondo ad una piccola valle, nella goccia che cade lentamente sul versante della montagna, nel fiorellino che, come per miracolo, nasce sulla roccia e quasi pare grato per quell’acqua che gli ha dato vita. Poi un venticello leggero si posa sulla fronte del poeta mentre diviene messaggero della musica del ruscello per il cielo.
Canta un ruscello in fonno a ‘na valletta;
qui la parete piagne a goccia a goccia;
là, su ‘na rupe, un fiorellino sboccia;
sfavilla, in arto, libbera, la vetta!
Lieve e dorce sospira er venticello;
sfiora la fronte mia co’ ‘na carezza
portanno in célo er canto der ruscello!
I sensi paiono giocare tra loro secondo un misterioso paradigma che vede le parole protagoniste di una scena non finalizzata a sé. L’enigma si scioglie nell’ultima strofa quando il poeta scrive:
Oh! Com’è bello er monno da ‘st’artezza!
Ogni essere che vive m’è fratello,
l’anima è tutto un sogno de bellezza!

Tutto trova compimento alla luce di una comunanza fraterna tra esseri creati, secondo una disposizione d’animo a cercare la pace, l’equilibrio, la serenità, realizzazione di un sogno di Bellezza.
Potremmo parlare in Tosti di una Bellezza che è Bonellum, giusto, eticamente rispettoso della natura, di ogni creatura terrestre.
I fiori, le stelle, il silenzio sono motivo di immaginazione: l’ingresso nel mondo delle favole.
Tosti nella poesia “La Fata” riesce a fare entrare il lettore nella magia di un bosco di sera, immerso nell’assenza di rumori, se non fosse per la voce delle sorgenti che accompagnano l’ingresso nel Paese delle Fate, un borgo dove tutto può avvenire e al contempo scomparire.
“Guarda!” — ho pensato — “Ma che fatto strano,
mo qui drentro la favola s’avvera!
Chi mai pensava che, ner bosco, c’era
un fongo rosso… e sotto ar fongo un Nano?”
Tutto curioso de scoprì larcano
me só sperduto ne la selva nera
fino a che tanto, me s’è fatta sera
in cima a la “Montagna”. Man mano
Se só accese le stelle rilucenti;
ner bosco s’è azzittato ‘gni rumore;
hanno cantato solo le sorgenti.
E all’improvviso, in mezzo all’incantata
pace, m’è apparsa lì, tra fiore e fiore,
la visione celeste de ‘na Fata.
Scrivevo del silenzio e del suo benefico apporto alla riflessione; sicché la solitudine è foriera di cambiamento, uno stato a cui si è sì soggetti nella quotidianità, ma che nell’isolamento contemplativo della natura assume un significato di “crescita” interiore.
In “Solitudine” quartine e terzine sono sospese tra evidenze paesaggistiche, (funghi, mirtilli, fiori delicati, prati di un verde smagliante, alberi, cielo grigio, fiume…) e realizzazione di una pace intima, unita a un senso “dolore paziente” e sogno.
Funghi e mirtilli, fiori delicati
co’ ‘na perla o ‘na lacrima attaccata,
pace silvestre; pace sconfinata
arta, su lo smeraldo de li prati.
L’abbeti neri, guardeno accijati
‘sto célo che je nega ‘n’assolata;
ma pure la foresta profumata
me sorride da ‘st’angoli incantati.
La Dora corre e luccica d’argento
e fra l’abbeti s’intravede appena
ma riconosco er canto suo ner vento!
Sto solo solo, ma nun me dispiace
perché è ‘na solitudine serena
fatta de sogni, de mestizia e pace!
L’ultimo testo che desidero prendere in considerazione, al fine di questo approfondimento tematico sui fiori, è il testo “L’aurora”, il quarto paragrafo dei testi dedicati a “Er bivacco”.
Attraverso il sonetto entriamo ancora una volta nel regno dell’immaginazione. Al segnale di una Fata, ecco che l’orizzonte infuocato da un tramonto magico, con il suo raggio di luce colpisce una vetta “immacolata”, incontaminata. Le ombre sono spinte in “fonno a la vallata”, le nuvole prendono forma di petali di fiori… e l’anima si apre ad accogliere la bellezza del creato
Ecco, come ar segnale de ‘na Fata
s’accese, in fiamme, tutto l’orizzonte:
un raggio fece in celo come un ponte
e annò a bacià la vetta immacolata.
Er sole, dopo tutta ‘na nottata,
mannò er saluto suo da monte a monte,
scese le coste, ce baciò la fronte
e cacciò l’ombre in fonno a la vallata.
Le nuvolette… petali de fiori!
la neve… un mare acceso de scintille!
er célo… un mare immenzo de colori!
Li sogni, in folla, da la porta uperta,
e le bellezze entrorno, a mille a mille,
nell’anima non più chiusa e deserta.