Recensione di Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
Natale e tradizione, connubio perfetto, soprattutto in ambito popolare e popolaresco. A questa tradizione si rifà “La cantata dei pastori”, andata in scena in un nuovo allestimento, prima assoluta, il 15 dicembre 2016 al teatro massimo Bellini di Catania.
Con l’ambizione di voler essere oggi, a Catania, opera lirica, La Cantata dei pastori è in realtà un gran canovaccio popolare, a cui il napoletano Peppe Barra si è liberamente ispirato, derivato dalla sacra rappresentazione “Il vero Lume tra l’Ombre, ovvero La Spelonca Arricchita per la Nascita del Verbo Umanato” del religioso ed esperto di teatro Andrea Perrucci, del 1698.
Intriso di buoni sentimenti, semplice solo all’apparenza, il testo originale sottende invece un messaggio ben più colto e mirato, quello della Controriforma di stampo gesuitico, che ovviamente veniva porto al popolo con mezzi e modi didascalici carezzevoli e divertenti, oltre che devozionali e legati allo spirito religioso.
In effetti, quei due poveri Maria e Giuseppe vaganti in cerca di un luogo dove far nascere il Bambinello, osteggiati dal diavolone di turno e da tutti i diavoli suoi seguaci e protetti dall’Arcangelo Gabriele, oggi non sono diventati altro che delle figure di sfondo, sia pure filo conduttore principale della rappresentazione. Non più sacra rappresentazione, ma rappresentazione di tradizione, nel modo in cui la tradizione ormai, per perpetuarsi, rappresenta se stessa.
Con tutte le variazioni sul tema, con tutte le macchiette e i tic, i problemi atavici della fame e della povertà, tratti dalla tradizione popolare napoletana che infarciscono la Cantata, la tradizione raccolta e passata di mano in mano, di penna in penna, d’idea in idea, rimaneggiata mille volte, non trova ormai in questa produzione che un modo per autocelebrarsi.
Una tradizione da rispettare e tramandare, certamente, ma in cui la gente si rispecchia ancora oggi non tanto per la sua valenza storica, quanto soprattutto per quella nostalgia di cui è intrisa e che oltretutto è specificatamente napoletana, poiché “quella” tradizione, in quei modi, forme, lingua, apparenze, sentimenti e quant’altro, appartiene a Napoli prima di tutto.
L’operazione del Barra, quindi, se da un lato lodevole, dall’altro, nonostante la sua indiscussa bravura e quella dei suoi compagni di scena, non ha aggiunto granché di nuovo al perpetuarsi natalizio annuale ormai all’infinito della stessa rappresentazione, che culmina nell’unico brano musicale dell’epoca ivi inserito che è “Quanno nascette ninno” di Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori.
Anche le musiche di Carmelo Columbro, Lino Cannavacciuolo e Roberto de Simone, che vedevano impegnata l’orchestra del teatro catanese, diretta dallo stesso M° Columbro, ed il Coro del teatro quindi, erano rese secondarie dal fasto devozionale e popolaresco del contesto visivo e dal fitto intrecciarsi dei dialoghi.
Protagonisti, invece, le scene di Tonino Di Ronza e soprattutto i costumi di Annalisa Giacchi e le abilissime luci di Gigi Ascione , che facevano gran mostra di sé insieme alle coreografie di Erminia Sticchi e che si adattavano perfettamente allo spettacolo, descrivendolo e circoscrivendolo, illustrandolo e sottolineandolo, anche con qualche sbuffo di fumo di troppo che infastidiva l’orchestra e la platea.
La Tradizione napoletana di cui sopra si parlava, a cui anche il grande Eduardo De Filippo si rifece nell’ideare la scena del Paradiso del suo “De Pretore Vincenzo”, dalla cui versione televisiva si è ampiamente attinto dal punto di vista coloristico e formale in questo spettacolo, ha rivissuto a Catania nel fasto delle proprie tinte e nel proprio particolarissimo fascino, coinvolgente soprattutto in clima natalizio, non convincendo però il pubblico delle prime, anche per l’inusualità del genere sul palcoscenico del Bellini e suscitando tiepidi applausi, rivolti soprattutto alla notorietà carismatica del Barra ed all’insieme dello spettacolo.
PHOTOS © Giacomo Orlando