INTERVISTA DI SALVATORE MARGARONE
Raccontaci un po’ di te. Come nasce la tua passione per la musica?
La passione per la musica è arrivata da piccolo: ero rimasto affascinato dal suono dell’organo, ma avevo cinque anni e mia madre mi spiegò che non ero grande abbastanza da raggiungere la pedaliera! Così ho iniziato con il pianoforte, affiancandogli per 10 anni anche il violoncello. E forse proprio questo strumento mi ha aperto invece le porte dell’orchestra.
Qual è stato il momento di svolta della tua carriera?
I momenti forti per me sono stati gli incontri con i miei maestri più importanti. Prima con Aprea, poi con Sinopoli, poi Gelmetti, Panula e infine con Maazel. Tappe importanti di un percorso di crescita che però non finisce mai. La vita per me è un po’ come camminare in montagna. Mentre cammini non ti rendi conto di quanto stai salendo. È solo quando ti fermi per riposare e che guardi giù che ti rendi conto del cammino che hai percorso. E comunque, quando guardi su, la vetta non ti sembra mai vicina.
Da giovane Direttore, raccontaci cosa provi quando dirigi e quando incontri nuovi talenti.
Dirigere l’orchestra può essere di volta in volta l’esperienza più appagante mai vissuta, oppure più frustrante. Perché si basa non più tanto sulla perizia tecnica e musicale, quanto sul rapporto umano. Il direttore, ed è una cosa che tento di spiegare in un capitolo del mio ultimo libro “Beethoven e la ragazza coi capelli blu”, non ha nessun potere divino, ma deve innanzitutto mettere in condizione i musicisti che suonano con lui di farlo il meglio possibile. Da questo punto in poi, se si instaura un rapporto di fiducia, può iniziare a dare delle suggestioni con il proprio gesto. Se non c’è fiducia, il direttore è la persona più inutile dell’orchestra.
Di talenti invece, ne incontro. E solitamente mi viene la voglia di condividere con loro momenti di musica in un modo o in un altro. Perché la musicalità, quella vera, unisce. E per come la vedo io, l’umanità in un musicista conta tantissimo.
Come ti rapporti con i giovani musicisti?
Penso che nei prossimi anni mi dedicherò di più ai “giovani”, anche considerando il fatto che invecchio anch’io… Ritengo che sia importante farli riflettere sul loro ruolo nella società di oggi: che senso ha studiare musica nel 2016? che senso ha la musica nella nostra società? Sono domande che fino a 10 anni fa uno poteva tranquillamente non porsi in quanto la via era quella, la struttura professionale collaudata. Oggi gli schemi si stanno evolvendo perché la società stessa è in piena mutazione. È dunque fondamentale tornare alle radici e darsi delle risposte per dare un senso alla professione più bella del mondo.
Anche perché se durante tutta la nostra formazione tendiamo correttamente ad agire in funzione di chi ci insegna prima e ci giudica poi, iniziata la professione bisogna invece girarci e guardare il pubblico negli occhi e ricordarsi che è per lui che suoniamo, e che è lui a permetterci di fare questo lavoro.
Pensi che in Italia ci sia spazio per i giovani ? In che termini?
Poco. Davvero poco. Da un certo punto di vista, è normale, perché in Italia come altrove il “mercato” si sta restringendo a vista d’occhio. E logicamente essendoci meno opportunità, i giovani non riescono ad entrare in un sistema che non gira più.
Però secondo me questa reazione è estremamente pericolosa, perché in una società che si evolve così rapidamente, in cui io a 38 anni difficilmente capisco un ragazzo di 18, quello che chiamerei la “contaminazione generazionale”, cioè un giusto livello di apertura delle generazioni l’una nei confronti dell’altra, potrebbe giovare all’evoluzione dell’offerta musicale…
Cosa consiglieresti ad un giovane musicista?
Innanzitutto studiare, studiare e studiare ancora. Perché un vero musicista deve naturalmente tendere alla perfezione.
Poi di suonare insieme agli altri, sempre. Perché la musica è condivisione. Poi di girare molto per il mondo, corsi, masterclass, concorsi, orchestre giovanili. Per confrontarsi con gli altri. Perché per il lavoro, per trovarlo, dovranno allargarsi molto e non pensare di trovarlo vicino a casa…
Parliamo della tua nuova collaborazione con Rai5. Come ti trovi nei panni di presentatore? Ti piace? Pensi sia un ruolo che ti si addice?
Mi diverto molto, la TV è un mezzo particolare che sto scoprendo in questi anni, prima con Che Tempo Che Fa, ora con le dirette di Rai5… Bisogna davvero riflettere su nuove modalità di trasmettere la musica alla società: e la TV è uno strumento importante al quale il mondo della musica si rapporta con grande difficoltà. Mi stanno venendo tante idee!
Tra i tuoi progetti troviamo “Jeans Music”. Ci spieghi come nasce ed in cosa consiste?
Il mio JeansMusic lab è una specie di laboratorio con il quale sperimento nuovi format per presentare il repertorio classico dal vivo. Ritengo che il concerto, nella sua formula attuale, sia funzionale al pubblico che già lo segue, ma non abbia la capacità di attrarre realmente nuove fette di pubblico. E il primo tassello, per me, da rimettere in discussione, è il formalismo che impera nelle sale da concerto. L’ultimo progetto per esempio, Intimacy, sperimenta il rapporto con il video: come usare l’arte più recente e alla quale la società maggiormente è sensibile, per trasmettere musica?
Ci sono limiti a parer tuo in ambito musicale? Ad oggi, si dovrebbe osare di più nelle proposte musicali? O bisognerebbe restare entro dei limiti? (Se si, quali? )
È questa dialettica che permette all’arte di prendere tutta la sua importanza nella società
I limiti nell’arte non devono esistere, perché il rapporto tra artista e società è quello di azione-reazione. L’artista deve essere libero di esprimersi e proporre il suo pensiero, la sua sensibilità. L’unica regola, che spesso si dimentica, è che il pubblico poi deve essere a sua volta libero di non apprezzare e di dirlo.
Che lavoro volevi fare da piccolo?
Dicevo a mia mamma che volevo fare il pilota di mattina, e il musicista di sera! Sono sempre stato poliedrico, oltre alla musica, mi piaceva la fisica, l’economica, la diplomazia… Però poi nel momento di scegliere veramente ti poni la domanda: potrei vivere lontano dalla musica? E siccome la risposta per me era no, ho scelto questa professione.
La cosa più strana di te?
Paradossalmente, forse proprio la normalità…
Altri progetti a cui stai lavorando per il futuro?
Dobbiamo ricercare delle modalità diverse, sostenibili nel tempo, per svolgere il nostro lavoro culturale. E proprio su quello si concentra la mia attenzione per il futuro. Sto investendo molto sul mio lab JeansMusic e abbiamo tanti progetti in serbo da realizzare, tutti progetti che mirano a trovare modalità di diffusione maggiore del repertorio classico. Spesso sento dirigenti culturali che si lamentano del fatto che poi alle loro attività di “avvicinamento di nuovo pubblico” non segua poi una crescita degli abbonamenti. Invece è normalissimo! Se cambi il format – chiamiamolo così – e riesci ad attrarre nuovo pubblico, non puoi pensare che poi a quello stesso pubblico vada bene anche il format precedente: vuol dire che era proprio quello che a loro non piaceva!
La situazione più imbarazzante in cui ti sei trovato?
Uh, ce ne sono moltissime. Solitamente dovute al fatto che non sono per nulla fisionomista, e si sprecano le conversazioni, a volte anche lunghe, con persone che non riesco assolutamente a ricordare. Che poi scopro aver già incontrato diverse volte, e anche con piacere! Sono un disastro.
C’è qualcosa che vorresti dire a chi ti legge attraverso noi ?
Io penso invece che sia venuto il momento di prendere coscienza che la nostra società paradossalmente è quella che ha il maggiore accesso alla cultura e alla conoscenza che l’uomo abbia mai potuto immaginare da 10mila anni, che la nostra società è diversa da quella dei nostri genitori, e quella dei nostri figli ancora diversa dalla nostra, ma che diversa non significa peggiore. E che per svolgere al meglio la nostra missione, dobbiamo avere il coraggio di immergerci nella società, capirla, e posizionarci in modo contemporaneo e senza pregiudizi. Perché se la società ha un grande bisogno di musica, e soprattutto di musica bella, tocca a noi portargliela. Ovunque sia, e con qualsiasi mezzo che ne rispetti la sostanza.
Sì. Sento troppo nel mio mondo che la società non capisce più nulla di musica, che “non è più come una volta”, che “il governo…”, che “la politica…”.
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