Dice Richard Linklater, in una recente intervista, che da sempre anche i più grandi autori di cinema hanno dovuto misurarsi con questioni di denaro, perché il cinema è un’industria e i film si fanno con i soldi. Aggiunge però che molte cose sono cambiate negli ultimi anni. Tempo fa (forse molto tempo fa) l’impatto culturale dei film realizzati da cineasti indipendenti era molto maggiore. Nessuno si preoccupava troppo del successo commerciale, perché quello che contava era la qualità dei film, il loro valore artistico. Era così per tutto, in ogni ambito della società: negli anni ‘60, per esempio, nessuno si preoccupava del fatto che il giovane Bob Dylan non fosse anche un campione d’incassi. Oggi, che di denaro ne circola sempre meno nonostante i film prodotti annualmente siano sempre di più, non si pensa e non si parla d’altro, e le possibilità di successo condizionano tutte le scelte, dall’ideazione di un qualsiasi film alla sua circolazione.
In un contesto siffatto, i festival rimangono uno dei pochi luoghi in cui la logica soffocante del profitto non costituisce l’elemento dominante. Non che questi eventi siano esenti dagli influssi del denaro e dei suoi condizionamenti correlati, ma esistono buoni motivi per pensare che lo spazio di programmazione di molti festival sia attraversato da tensioni prevalentemente riconducibili alle ragioni della ricerca e della difesa del cinema d’autore, al prevalere della libertà di espressione sulla ricerca insistita del profitto, al primato dell’estetica sull’economia. Senza necessariamente demonizzare quest’ultima ma, al contrario, riconducendola alla sua ragione primaria, che dovrebbe consistere nel fornire i mezzi per il conseguimento di uno scopo superiore.
Spesso ci si attende dai festival quello che i festival non possono dare. Altrettanto spesso, non si pretende dai festival quello che essi dovrebbero necessariamente provvedere: non solo una fotografia del presente, ma la capacità di vedere le cose in altro modo, di percepire ciò che talvolta risulta invisibile o poco chiaro, di venire a contatto con un altro cinema possibile, di intuire percorsi alternativi o semplicemente prossimi a venire.
Se la 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sarà capace anche solo di sfiorare per un istante uno o più di questi intendimenti, avrà almeno in parte assolto il suo compito. Rendere conto della complessità del presente senza semplificazioni riduttive, guardarsi intorno con curiosità priva di pregiudizi e la speranza di scoprire l’affiorare del nuovo, predisporsi a decifrare i segni della diversità sin dentro la superficie apparentemente omologata, intuire l’emergere di un nuovo autore o di un’inedita strategia produttiva dalla quale scaturirà la scintilla di un rinnovamento da tutti auspicato e non ancora dispiegato. Cinquanta film, o giù di lì, possono essere troppi o troppo pochi a seconda dei punti di vista. L’auspicio è che siano sufficienti per dare a ciascun spettatore la possibilità di trovare almeno un buon motivo per poter dire che la Mostra è stata, una volta di più, un’esperienza utile e persino necessaria.
Alberto Barbera