Le ricerche zoologiche hanno rivelato che esistono ancora specie marine con caratteristiche morfologiche e anatomiche di centinaia di milioni di anni fa: vengono definiti fossili viventi. Ester Cecere dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr ci parla dei più famosi
Nei mari vivono ancora animali preistorici; si chiamano “fossili viventi”. Charles Darwin li definì come organismi che presentano caratteristiche morfo-anatomiche e strutturali visibilmente “primitive”, che non sembrano essere cambiate molto durante la lunga storia geologica del nostro Pianeta e, in generale, nel corso della loro evoluzione, tanto che fossili risalenti all’era mesozoica e paleozoica risultano indistinguibili dagli individui attuali. Fra gli evoluzionisti dello scorso secolo, il dibattito sui fossili viventi è stato molto acceso, poiché per molti studiosi era impossibile che esistessero specie che non avessero subito mutamenti nel corso di centinaia di milioni di anni di evoluzione.
Tuttavia, con i progressi raggiunti dalla scienza, oggi sappiamo bene come mai è stato possibile per diverse creature conservare delle forme arcaiche così a lungo. Con il progredire delle ricerche zoologiche, il numero di fossili viventi è andato via via aumentando nel corso dei decenni tra quelli più famosi, il cefalopode Nautilus sp. (Linneo,1758) è quello che ha suscitato maggiore clamore e interesse. Il nome deriva dal greco e significa “navigante”. Nel XVI secolo, i commercianti europei che raggiunsero le Molucche alla ricerca di spezie si imbatterono nelle conchiglie di Nautilus. Essendo molto belle venivano inviate in Europa e vendute come curiosità o trasformate in calici impreziositi d’oro. “Nautilus” è diventato il nome di navi, sottomarini, collezioni di orologi di lusso, macchinari e persino di una compagnia mineraria in acque profonde. Essendo anche molto apprezzato negli acquari e all’interno delle collezioni malacologiche, rientrò a pieno titolo nel dibattito sull’evoluzione dei viventi, già al periodo di Darwin.
Simile al calamaro ma con una splendida conchiglia a sezione spirale, liscia e bianca con screziature rosso arancio, che può superare i 20 cm di diametro, oggi è l’unico rappresentante di un gruppo di molluschi molto più vasto che popolava i mari 200 milioni di anni fa. Prima della sua scoperta, nel 1829, si pensava che questo mollusco si fosse estinto 250 milioni di anni prima, periodo in cui i mari del Pianeta ne erano ricchissimi. Oggi, gli individui di questa specie sono presenti dalla superficie alla profondità di 500 m, principalmente nell’Oceano Pacifico occidentale, soprattutto dalle Isole Figi alla Nuova Guinea nonché nell’Oceano Indiano.
A differenza degli altri cefalopodi, il Nautilus ha un sistema visivo primitivo; il suo occhio funziona come una camera oscura, la messa a fuoco penalizza cioè la luminosità e viceversa. In compenso, il suo senso dell’olfatto è ben sviluppato e consente la ricerca del cibo. A differenza di quelli di seppie, calamari e polpi, i novanta tentacoli del Nautilus non hanno ventose, ma la loro superficie ruvida e irregolare permette comunque una presa molto salda su qualunque oggetto solido. Questo cefalopode si nutre prevalentemente di crostacei e pesci morti e viene predato da squali, tartarughe e polpi. Caratteristica del Nautilus è l’interno della conchiglia, detto “nicchio”, che è suddiviso in tante camere separate da setti, ma collegate tra loro da un canale che permette al gas in esso contenuto di passare da una camera all’altra, favorendo il galleggiamento dell’animale e, tramite opportune regolazioni di pressione, lo spostamento in alto e in basso nella colonna d’acqua. Infatti, questo mollusco effettua una grande escursione batimetrica tra il giorno, quando scende a profondità di 500 metri, e la notte, quando risale verso la superficie.
Un altro invertebrato sorprendente, anche per il suo aspetto che ha conservato una sembianza primitiva, è il Limulo o granchio a ferro di cavallo, che viene spesso paragonato a specie fossili vissute a partire dal Devoniano, cioè circa 400 milioni di anni fa. Nonostante venga chiamato granchio per il suo aspetto corazzato e la forma particolare del corpo, è più strettamente imparentato con ragni, zecche e scorpioni, cioè con gli artropodi, che con i granchi, che sono crostacei. Al genere Limulus appartengono quattro specie. La più nota è il Limulus polyphemus (Linnaeus, 1758), i cui esemplari sono diffusi prevalentemente sulla costa orientale del Nord America, dal Maine fino alla Florida, e nel Golfo del Messico fino alla penisola dello Yucatàn. Nel periodo riproduttivo, in primavera, migrano nella baia del Delawere, dove depongono le uova. Delle altre tre specie, una è presente nel mare interno di Seto, il granchio a ferro di cavallo giapponese; le altre due vivono lungo costa orientale dell’India. I Limuli si nutrono di molluschi, vermi anellidi e altri organismi bentonici.
Nautilus
Questa specie dall’aspetto bizzarro è a rischio di estinzione, soprattutto a causa delle case farmaceutiche. Infatti, il sistema immunitario del Limulo è primitivo, ma è in grado di riconoscere i lipopolisaccaridi presenti sulle pareti dei batteri Gram negativi, riuscendo a eliminarli isolandoli in un coagulo. Questa capacità ha portato allo sviluppo di un test in vitro noto come “limulus test”, usato per l’individuazione di endotossine batteriche nelle materie prime industriali e nell’acqua, e in farmacologia per l’individuazione di alcune malattie batteriche. Ogni anno 500.000 individui vengono raccolti lungo la costa est degli Stati Uniti. All’interno dei laboratori, con aghi infissi nel pericardio degli animali, viene drenato il 30% del sangue, che ha un valore di circa 18.000 dollari al litro. Gli esemplari alla fine del salasso vengono rigettati in mare dove facilmente vanno incontro alla morte causata sia dallo shock sia dall’ipossiemia, cioè dalla carenza di ossigeno nel sangue. È stata stimata una mortalità dal 15% al 30%.
Concludiamo questo tuffo nel passato con due specie di pesci oceanici, appartenenti al genere Latimeria, conosciute, prima del loro ritrovamento in mare, solo a livello paleontologico grazie a reperti risalenti a circa 300 milioni di anni fa. La prima (Latimeria chalumnae Smith, 1939) fu scoperta nel 1938, quando Marjorie Courtenay-Latimer, curatrice di un piccolo museo di East London in Sud Africa, ne trovò un esemplare nel pescato di un peschereccio. Il nome generico Latimeria è appunto a lei dedicato. Nota per la sua pigmentazione azzurro splendente, questa specie ha grandi dimensioni: si aggira sugli 80 kg di peso e raggiunge la lunghezza di 2 metri. È diffusa nell’Oceano Indiano occidentale, dal Sudafrica verso nord, lungo la costa orientale dell’Africa, fino a Kenya, Comore e Madagascar.
La seconda specie, Latimeria menadoensis (Pouyaud, Wirjoatmodjo, Rachmatika, Tjakrawidjaja et al., 1999) in indonesiano “raja laut”, cioè “re del mare”, fu invece scoperta nel 1997 in Indonesia, sulle bancarelle di pesce da una coppia in luna di miele. La comparazione anatomica fra i resti fossili di pesci appartenenti ai Coelacanthiformes e gli esemplari attualmente viventi mostra come questo ordine sia rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 3-400 milioni di anni. Studi genetici hanno evidenziato che il patrimonio genetico del genere Latimeria muta con estrema lentezza poiché la specie subisce un numero ridotto di mutazioni genetiche. L’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) classifica L. chalumniae tra le specie in pericolo critico e L. menadoensis tra quelle vulnerabili.
È probabilmente anche per la presenza di queste specie “preistoriche” che i fondali sono fonti di leggende di vario tipo. Come quella, passando dall’ambiente marino al lacustre, del cosiddetto Mostro di Lock Ness, del quale però non esiste alcuna prova di reale esistenza.
[Almanacco della Scienza N.5, Aprile 2023]