RECENSIONE di Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
Viene da pensare, a volte, assistendo dal vivo ad un’opera arcinota come Tosca di Giacomo Puccini, che se lo stesso cast in scena oggi si fosse presentato in palcoscenico vent’anni fa, l’effetto sarebbe stato prorompente.
Eppure alcuni cantanti della generazione d’oro degli anni ’80 e ’90 sono ancora sul palcoscenico e li ritroviamo ancora oggi sorprendenti. Probabilmente, in un successivo ricambio generazionale, la longevità delle voci non sarà la stessa: diversi i tempi, diversi i maestri, diversa, forse, anche la tempra.
Tempra d’acciaio, sempre in gioco, quindi, a Palermo, per Fiorenza Cedolins e Marcello Giordani, rispettivamente Tosca e Cavaradossi nella produzione del Teatro Massimo di Palermo, realizzata dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ed andata in scena il 2 aprile 2017.
Fiorenza Cedolins ha cantato uno dei suoi must sulla scena e, obiettivamente, la voce, non è più quella di un tempo. Ha perso spessore nel registro medio e acuto, i filati e i piano le risultano difficili da governare e i portamenti sono eccessivi e stirati. Eppure ha sprazzi di grandezza, così come momenti di cedimento, come quello in cui, pur bissandola, in “Vissi d’arte” per due volte non ha centrato l’acuto su quel famoso SI bemolle nella parola “Signor”: lo ha solo sfiorato dal basso, meglio la seconda che la prima volta; e il finale della prima esecuzione era calante non poco anch’esso.
Pur mancando la scena di tendaggi a cui aggrapparsi, comunque, la Cedolins, scenicamente ancora oggi può essere considerata una figura di riferimento per questo personaggio, al quale però ha conferito, soprattutto nel rapporto con Scarpia, un che di lascivia che Tosca non possiede; così come l’ha resa svenevole, incline alle smorfie bamboleggianti, non eroina tragica o addirittura grandguignolesca, come sempre ci è stata porta, da Sardou prima e da Puccini poi. Punti di vista, probabilmente accentuati dalla regia di Mario Pontiggia, non sempre condivisibili, ma, ovviamente, indiscutibile presenza scenica.
Quanto a Marcello Giordani, reduce da una buona prova nella Manon Lescaut a Catania, nella sovrana parte pucciniana ha riversato tutta la propria generosità d’interprete in una voce che, anche qui, purtroppo, risente dell’usura del tempo e della stanchezza di prove ardue che si susseguono in tempi ristretti. Bis pure per lui di “E lucevan le stelle”, meglio riuscito anche qui alla seconda performance. In questo caso, è stata non solo l’imprevedibilità della risposta di una voce non più fresca, ma anche, probabilmente, l’emozione che gioca brutti scherzi ancora oggi perfino ai grandi interpreti, che sono i primi, in quanto grandi, a rendersi conto dei limiti del proprio mezzo vocale a rischio e, dunque, a temerlo. E’ anche per questo che i bis studiati a tavolino dovrebbero essere evitati. Indiscutibile, anche per lui, la presenza scenica.
Di impasto corposo, così come corposa è la stazza, meno quanto a volume, la voce del baritono Sebastian Catana, Scarpia, che ha fornito la prova di maggiore freschezza timbrica, nonostante non fosse particolarmente espressivo scenicamente.
Gradevole il sagrestano Paolo Orecchia, altrettanto l’Angelotti di Romano Dal Zovo, corretti gli altri interpreti, ben istruito da Piero Monti il Coro, anche quello di voci bianche, del Teatro Massimo.
Last, but not least, la concertazione e direzione d’orchestra del M° Gianluca Martinenghi, che ha retto con buon polso l’orchestra del teatro palermitano, donando belle dinamiche pucciniane e bei colori, nonostante, in buca, qualche momento d’incertezza abbia incrinato la resa dell’ottima orchestra del Massimo.
La regia di Mario Pontiggia era abbastanza curata, ma, probabilmente per non mostrarsi routinaria in un allestimento tradizionale, non solo pare aver lasciato campo libero ai virtuosismi scenici della Cedolins, ma anche l’ha fatta muovere o restare ferma in momenti poco confacentisi allo svolgimento della vicenda: nella scena precedente il “Vittoria” di Cavaradossi al secondo atto, una Tosca accasciata da una parte e non, invece, avvinghiata all’amante “qual leopardo” come recita il libretto, è risultata quanto meno inconsueta. Ovviamente, l’insieme scenico ha pagato in termini di tensione drammatica, che calava decisamente di tono con imprevisti alti e bassi. Un tira e molla di emozione-relax, insomma, che non ha giovato alla coerenza dello spettacolo, comunque di complessivo buon livello.
Il tutto in una messa in scena, illuminata dalle luci di Bruno Ciulli, che al primo atto appariva sontuosa, ancor di più al secondo, calando di tono al terzo, in cui il retaggio del pavimento lucido della gemella La Traviata, in partenza in tournée con Tosca per il Giappone, si faceva sentire in tutta la sua sgradevolezza. Meno che ne La Traviata, anche in Tosca, quindi, lo scenografo Francesco Zito ha oscillato, a decrescere, tra un atto e l’altro nella qualità e nello stile della messa in scena, curando invece con attenzione i costumi.
Grande successo di pubblico per un’opera di così tanto richiamo, in un teatro che sta giustamente sperimentando di aprirsi anche al pubblico esterno, sia con i maxi schermi in piazza, che con la trasmisione in diretta streaming. Lodevoli iniziative.
Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
PHOTOS: © Rosellina Garbo