Intervista di Tiziano Thomas Dossena
BEERCOCK è un performer anglo-italiano: cantante, musicista, poeta e attore di teatro. Da musicista, ha pubblicato il suo primo album solista “Wollow” (2017, 800A Records), e lo ha promosso in due anni di tour tra Italia e Regno Unito in radio, clubs, teatri e festivals; dal 2015, ha lavorato in featuring con artisti e produttori come Giovanni Sollima, Fabio Rizzo, Alessio Bondì, Go-Dratta e molti altri. Da performer, lavora in vari collettivi teatrali anche come regista: le sue colonne sonore e i suoi spettacoli hanno debuttato in Italia al Santarcangelo Festival e Primavera dei Teatri ed è stato finalista al 30° Premio Scenario. Con “see you around the bend” ha inizio una nuova fase artistica che parte dal concept “Voce. Corpo. Rito.” in cui BEERCOCK indaga i mezzi e i confini della voce e del corpo in quanto strumenti, ponendoli al centro della sua nuova ricerca che conduce al nuovo album, in uscita a dicembre 2020 con il sostegno di MiBact e SIAE nell’ambito dell’iniziativa “Per Chi Crea”.
L’Idea Magazine: Sergio, tu sei nato in Inghilterra da padre inglese e madre siciliana. Quando ti sei trasferito in Italia? Quanto influenza ha la tua terra d’origine, a parte la lingua, sulla tua musica? E la Sicilia?
Beercock: Mi sento di premettere che sia il Regno Unito che la Sicilia sono le mie terre di origine. Sono cresciuto in Sicilia da una famiglia bilingue (trilingue se consideriamo il dialetto siciliano). Più che l’Inghilterra, mio padre con il suo amore per la soul-music (Tamla-Motown, Stax) e la world-music, è stato la mia primissima formazione musicale. Ho avuto poi in adolescenza un periodo di fascinazione per la musica popolare inglese, che si è tradotto poi nel mio primo album solista “Wollow”.
L’Idea Magazine: Da dove prendi l’ispirazione per i tuoi testi? Scrivi esclusivamente in inglese?
Beercock: Prendo ispirazione dalle emozioni quotidiane, dalla strada, dalle relazioni, dai furori e dalle gioie. La cosa che faccio più di ogni altra ogni giorno è scrivere, prevalentemente in versi, e non prediligo l’italiano o l’inglese. Le cose che scrivo poi diventano parte di un’opera teatrale o l’embrione di una canzone. Tendenzialmente sì: per la musica scrivo in inglese, perché gran parte della musica che ascolto è anglofona.
L’Idea Magazine: A parte essere cantante, sei anche strumentista. Cosa suoni? Tu scrivi sia i testi sia la musica delle tue canzoni?
Beercock: Nei miei dischi e spettacoli scrivo e suono pressoché tutto io. Ho cominciato in adolescenza come batterista; poi ho esplorato strumenti a corda come la chitarra classica e il charango, e mi diverto anche con il pianoforte e i flauti. Durante la pandemia mi sono reso conto che tutto quello che mi serviva ce l’avevo addosso: la voce e il corpo. Di conseguenza “Human Rites” è stato scritto prevalentemente per Corpo e Voce.
L’Idea Magazine: Oltre alle canzoni per i tuoi album, tu componi anche colonne sonore. Dove sono state utilizzate? Quando è che hai sentito il richiamo della musica?
Beercock: Il richiamo della musica è arrivato prima della recitazione, e per forza di cose (come si suol dire) mi sono ritrovato a fondere i miei due mestieri: da qui mi è stato attribuito il ruolo di performer, a metà fra musicista e attore. La gran parte delle mie soundtracks sono suonate dal vivo da me stesso durante spettacoli teatrali, raramente ho consegnato una traccia audio da mettere in onda.
L’Idea Magazine: Il tuo primo album, “Wollow”, a cosa mirava, musicalmente parlando? So che hai avuto molto successo con il tuo “Wollowtour”. Puoi parlarne un po’?
Beercock: “Wollow” era la fotografia musicale di Sergio a 25 anni, pregno dei miei studi e esperienze nel campo della world music e dello storytelling: dal vivo, ogni brano veniva introdotto da un racconto, in pieno stile “cantastorie”. Il Wollowtour è stato un percorso importantissimo di studio per quello che poi sarei diventato: Liverpool, Londra e le due sfide più gratificanti del tour inglese; il giro della penisola italiana è stato lungo e vario, e ho avuto modo di testare audiences molto differenti fra di loro per età, contesto sociale e geopolitico: suonare a Napoli e a Torino impiega energie e linguaggi praticamente opposti, mentre io mi sono ostinato a tenermi stretto al mio modo di fare le cose, che mi ha permesso di non cedere allo scorforto lì dove l’attenzione del pubblico sembrava minore, e di non autocompiacermi nei clubs e festivals più calorosi. I festival e i clubs che mi porto nel cuore dal Wollowtour: Ypsigrock Festival (Castelbuono, Sicilia), i Magazzini Sul Po e il Pop (Torino), Wood Festival (UK), The Nest Collective (London), The New Adelphi (Hull, UK), Mondo Sounds (S.Vito Lo Capo, Sicilia), e molti altri.
L’Idea Magazine: In che cosa è consistita la tua collaborazione con Giovanni Sollima?
Beercock: In breve, Sollima mi ha sentito suonare live su Rai Radio 3 e mi ha scritto per riarrangiare due miei brani live per 100 violoncelli al Teatro di Verdura a Palermo: “Reason” tratto da “Wollow”, e la mia cover di “Black is the color” di Nina Simone. Non credo di aver mai avuto una intesa così immediata con un musicista di quel calibro in vita mia. Una esperienza indimenticabile.
L’Idea Magazine: Il tuo prossimo album, “Human rites”, che uscirà a dicembre, tratta nuovi argomenti, sia come testi sia come musicalità. Puoi spiegare ai nostri lettori cosa porta di nuovo questo album?
Beercock: Si tratta di un album molto luminoso. Pieno di cori, ritmo, cielo, terriccio, sensualità, rabbia, gospel, elettronica. Segue l’ideale di una nuova umanità, i suoi riti e i suoi diritti. Questo nuovo messaggio lo abbiamo immaginato (abbiamo: io e Fabio Rizzo, produttore) suonato prevalentemente con due strumenti: il corpo e la voce. Infatti il concept del nuovo progetto è proprio: “Voce. Corpo. Rito”. Ogni brano è l’episodio di un grande rito: ogni episodio è a sua volta un rito umano da condividere con la società, in questo periodo storico attraversato da un terremoto che ha portato a ripensare alle dinamiche più profonde tra individui e collettività, tra prossimità e distanza, tra fisico e digitale.
La tracklist è composta 9 brani: l’album apre con “See you around the bend, un inno all’umanità, l’inizio di tutta la liturgia di voce e corpo del disco. Poi il canto tribale di “Unfolded”, una esortazione energica ad aprirsi agli altri, un invito a fare comunità. “My day becomes an hour”, un brano soul accompagnato da un grande piano solitario: una richiesta di attenzioni alla partner assente. “Burn my lyre” è il pezzo decisamente più criptico del disco: canto e ritmo si esaltano, si trasformano in ascesi, si mescolano: raccontano il bisogno di bruciare il passato verso un futuro incerto. “In bliss” rappresenta il rito vero e proprio: un mantra di mani, petti, fischi, voci ronzanti. Un richiamo ad antichi ritmi tribali, che non hanno bisogno della parola. “Feel your fall”è anche una video-performance diretta da Vincenzo Guerrieri e co-prodotta da PANK Agency e Garage Arts Platform, e racconta di uno stormo di falene che si attorciglia ad un fulmine per poi precipitare: una ode alla forza desiderio. Solo corpo e voce. “The wreck of a rainbow” è una storia d’infanzia, un’ode alla fantasia dei bambini. In “The name of things” cerco di indagare la difficoltà di trovare le parole giuste per spiegarmi: perché “the names of things, by the way I sing, never sound ordinary”. In “You and your nudity” tento di arrampicarmi sui versi di un poeta che amo molto per esprimere i miei sentimenti verso una persona, ma quello che esce è solo un nonsense pieno di immagini. Inseguito dal tempo, decido di dire le cose come stanno, senza girarci intorno. Il disco si chiude con “Cling”: un canto sulla separazione, forse fra i sentimenti più sentiti negli ultimi mesi. Una melodia lontana, come in una caverna: la voce emerge come una presenza, come un fiore nel buio.
L’intero album, realizzato col sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito dell’iniziativa “Per chi crea”, è prodotto da Fabio Rizzo con l’uso di un solo microfono per la ripresa di tutte le parti vocali e dei beat del fiato e delle mani, poi processati e modificati fino a costruire il muro di suono che attraversa tutta l’opera: una vera e propria performance in studio.
L’Idea Magazine: Con le tue canzoni, tu fai tour in Italia e nel Regno Unito. Hai programmi di venire anche negli USA?
Beercock: Ci stiamo lavorando proprio in questi giorni; incrociamo le dita!
L’Idea Magazine: Sei anche regista. Che cosa hai diretto? E come attore quali sono state le tue esperienze?
Beercock: Dal 2011 al 2017 ho diretto un gruppo teatrale tutto mio (Bottega di Mastro Porpora, Enna-Sicilia) e dal 2015 collaboro con varie realtà tra Palermo e Torino nell’ambito della performance e della drammaturgia contemporanea: nelle mie collaborazioni non ho quasi mai fatto distinzione fra regia, interpretazione, scrittura, colonna sonora; salto da un ruolo all’altro anche all’interno dello stesso progetto, in base alle necessità mie e del team, e i ruoli sono sempre fluidi soprattutto nelle compagnie indipendenti. Credo moltissimo nella forza della flessibilità e poliedricità: quando non ci sono le condizioni per specializzarsi, bisogna inventarsi il mestiere.
Con il teatro ho avuto la possibilità di girare l’Italia e fare delle esperienze molto formative in Francia: Teatro Biondo e Spazio Franco (Palermo), Cavallerizza Reale (Torino), Santarcangelo Festival (Santarcangelo di Romagna), Primavera dei Teatri (Castrovillari), Theatre de la Nouvelle Génération (Lione, Francia), per citarne alcuni.
L’Idea Magazine: Hai già altri progetti in lavorazione, sia musicali sia teatrali?
Beercock: In questo periodo sto lavorando a due progetti molto belli a Palermo: uno è “Secret Sacret” con Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi (teatro d’ispirazione dadaista) e l’altro e “Element-Z” insieme al Progetto Amunì (progetto vincitore del bando MigrArti 2017, regia di Giuseppe Provinzano). Intanto con Mauro Lamantia portiamo avanti uno studio su “I Fatti di Petra” di Nino Savarese.
L’Idea Magazine: Sogni nel cassetto?
Beercock: Avere uno studio di produzione artistica, lontano dalla città, dove poter organizzare residenze artistiche pluridisciplinari anche per altri.
L’Idea Magazine: Se tu avessi l’opportunità di incontrare un personaggio di tua scelta, del passato o del presente, chi sarebbe e cosa chiederesti?
Beercock: John Coltrane. Senza se e senza ma. Non so cosa gli chiederei, francamente: mi basterebbe guardarlo suonare.
L’Idea Magazine: Un messaggio per i nostri lettori?
Beercock: Avere un senso della comunità è importante. Non avrei potuto fare questo disco senza un team di persone che mi stimolasse e sostenesse professionalmente. It’s okay to ask for help: è una presa di coscienza comunitaria. E’ anche per questo motivo che abbiamo deciso insieme a 800A Records di permettere ai fans e agli ascoltatori di comprare il disco direttamente da noi su Bandcamp, senza il bisogno di passare dai grossi supermercati digitali della musica: Bandcamp è una piattaforma che tutela gli artisti e si prende cura della comunità. Questo è il link diretto a “Human Rites”, per ascoltarlo e sostenerlo: https://beercock.bandcamp.com/album/human-rites
– Join the rite. Remember you’re human. –