“Non è una questione di genere, ma solo di impegno, studio e dedizione”, sottolinea Barbara Jatta, che dal primo gennaio 2017 ricopre l’incarico di direttrice dei Musei Vaticani, una delle strutture museali più visitate al mondo, oltre 6 milioni di persone l’anno. Nata a Roma, sposata, tre figli, è cresciuta in una famiglia dove l’amore per l’arte si respirava come l’aria. La mamma esperta di arte bizantina e restauratrice, la nonna pittrice, il nonno materno – Andrea Busiri Vici D’Arcevia – architetto, critico d’arte e collezionista. Al ramo paterno, di origine pugliese, si deve la fondazione del Museo Archeologico Nazionale Jatta, ospitato nella dimora di famiglia. Diplomata all’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario, laureata in Lettere, specializzata in Storia dell’arte, ha svolto tirocini all’estero, incarichi presso l’Istituto nazionale per la grafica, docenze e corsi di specializzazione. È membro di commissioni di riviste e di associazioni di settore, una carriera che l’ha portata a rivestire un ruolo prestigioso, in un ambiente ancora prevalentemente maschile, dove però lei fa valere lo spirito di squadra maturato in tanti anni da giocatrice di pallavolo in C1.
Come ci si sente ad essere direttore dei Musei Vaticani, un’istituzione nata per volere di Papa Giulio II nel 1506 e diretta sempre da uomini?
Non ne ho mai fatto una questione di genere, ma solo di grande impegno nella cura e nella gestione dei Musei, un ruolo che mi era chiaro quando quattro anni fa ho assunto la direzione, essendo stata già vicedirettore sotto l’allora responsabile Antonio Paolucci. La particolarità di questa gestione consiste nel fatto che non riguarda un solo museo ma un complesso di collezioni, una realtà ampia e articolata. Posso dire, per la mia esperienza in Vaticano, che basta lavorare bene e con passione: sono stata fortunata nell’aver avuto collaboratori attenti e aperti al confronto. Rispetto alla questione femminile, credo che la società sia cambiata in favore di una maggiore presenza delle donne nei ruoli di rilievo e anche il Vaticano si è adeguato.
Ha lavorato per venti anni nella Biblioteca Vaticana. Quanto le è servita questa esperienza?
È stata fondamentale perché, anche se non avevo un ruolo apicale, ho avuto la possibilità per venti anni, di conoscere da vicino la Città del Vaticano, i suoi musei, di curare mostre, tra le quali una per il Governatorato – dal quale dipendono i Musei – dedicata agli ottant’anni della nascita dello Stato e di realizzare il relativo catalogo insieme alle diverse realtà interne. Quando ho assunto l’incarico di direzione conoscevo già tanti colleghi, dalla biblioteca alla Fabbrica di San Pietro, dall’archivio a alla comunicazione alla gendarmeria, quindi non ho avuto bisogno di rodaggio per adattarmi all’ambiente.
Quali sono gli elementi basilari della sua direzione?
Ho raccolto il programma di Antonio Paolucci, che ha dato seguito a una tradizione già salda, basata principalmente sulla conservazione, manutenzione e sul restauro del patrimonio artistico. Del resto è la natura stessa della missione del direttore di queste collezioni: preservare e condividere per le generazioni future il patrimonio universale di storia dell’arte e fede.
Alcuni studiosi sono contrari alla politica dei prestiti, qual è la sua posizione al riguardo?
Noi ci concentriamo maggiormente su progetti interni, una linea dettata anche dalla contrazione di visitatori conseguente al periodo di pandemia. Tuttavia non rinunciamo, sempre dopo un’attenta valutazione, alla condivisione di iniziative con altre istituzioni: abbiamo prestato il San Girolamo Penitente di Leonardo da Vinci al Louvre e al Metropolitan nell’anno delle celebrazioni del cinquecentenario della morte del pittore, ma ancora prima abbiamo esposto questo capolavoro nel Braccio di Carlo Magno per renderlo fruibile a tutti, con ingresso gratuito. Vorrei anche ricordare le iniziative organizzate con piccole realtà diocesane italiane e straniere, che sono dei veri scrigni.
Nel lockdown molte collezioni hanno utilizzato la realtà virtuale per essere visitabili da remoto. Come si colloca l’istituzione che lei dirige rispetto a questa nuova modalità?
Nei tre mesi di chiusura abbiamo lavorato per implementare il sito web museivaticani.va con il catalogo on line, ogni reparto ha incrementato il portale per dar vita a un sito che non fosse solo a uso turistico ma favorisse una conoscenza approfondita di questa istituzione, con una descrizione accurata delle sezioni, tour virtuali nella Cappella Sistina, nelle Stanze di Raffaello, realtà 3D, tra l’altro già disponibili da tempo per coloro che non possono venire a visitarci. Durante il lockdown abbiamo rilanciato tramite i social questi contenuti, ottenendo uno sviluppo esponenziale degli accessi al sito, soprattutto tra marzo e aprile. Abbiamo proposto anche delle pillole di arte, con un curatore che raccontava una parte del reparto o un’opera. Il successo della rubrica ci ha stimolato a riproporla, coinvolgendo tutti i reparti e i laboratori di restauro.
Il turismo di massa, del mordi e fuggi, interessa anche il Vaticano. Come ovviare al dilagare di questo fenomeno?
Era una preoccupazione fino a qualche tempo fa. Ora non sappiamo come sarà in futuro, auguriamoci intanto che il turismo si riprenda.
Quanta scienza c’è nei Musei Vaticani? Quale ruolo hanno i laboratori per il restauro e la conservazione, collaborazioni come quelle avviate con il Cnr?
Ce n’è tanta: prima di iniziare un restauro programmiamo con il reparto di ricerche scientifiche una serie di indagini diagnostiche. Una prassi che è diventata stabile fin dagli anni ’30 del secolo scorso e che si avvale dell’apporto di chimici e biologi, che ci supportano preliminarmente e nel corso del lavoro. Nelle nostre pubblicazioni viene sempre dato spazio al progetto scientifico che interessa un’opera. Il San Girolamo Penitente di Leonardo è stato sottoposto a molti esami prima di farlo viaggiare verso altri musei. Un conservatore cura tutti gli aspetti relativi alla messa in sicurezza delle opere: luce, ambiente, condizioni di esposizione…
In questo momento di crisi, si sente ripetere come motto consolatorio che la bellezza salverà il mondo. Le opere d’arte possono farlo davvero?
Sicuramente il bello ispira valori spirituali elevati e coinvolge emotivamente, è un veicolo per sentirsi meglio, come ha dimostrato la massiccia affluenza ai Musei Vaticani dopo il lockdown. Italiani e tanti turisti stranieri si sono messi in viaggio per riempire gli occhi e il cuore di cose belle e i nostri Musei si legano a valori non soltanto storici e artistici, ma di fede e di spiritualità, e per tante persone questo aspetto è molto importante, colpisce anche i non credenti.
Papa Francesco è venuto a trovarla?
Nell’ottobre del 2019 abbiamo aperto e inaugurato un modernissimo allestimento all’interno del museo archeologico e contestualmente una mostra sull’Amazzonia, alla quale era dedicato un sinodo negli stessi giorni. Il Papa è venuto a trovarci in entrambe le occasioni e ancora prima aveva visitato un’esposizione sull’arte russa, organizzata al Braccio di Carlo Magno, nata dallo scambio di opere con la Galleria Tretyakov e prorogata per il grande successo di pubblico.
Un membro della sua famiglia, Mauro Jatta (1867-1918), fu batteriologo e chimico pluripremiato e assistente di Camillo Golgi, Nobel per la Medicina 1906. Ha testimonianze familiari, aneddoti, curiosità su questo suo avo?
Mauro Jatta nel 1911 diresse la campagna anticolerica a Napoli, nel 1913 operò a Tripoli e Bengasi contro la peste bubbonica e nel 1915 organizzò i soccorsi per il terremoto della Marsica. Palazzo Jatta, a Ruvo di Puglia, conserva un appartamento dedicato alla memoria storica della nostra famiglia e Mauro è uno dei capisaldi. Giovanni Giolitti ebbe a dire: “Le truppe partiranno quando Jatta avrà assicurato che a Napoli non vi è più il colera”. Riuscì a ridurre le manifestazioni dell’epidemia fino alla totale scomparsa, meritando la medaglia d’oro per l’impegno nella profilassi delle malattie infettive.
Fin da piccola si è cibata di pane e arte: ha mai pensato di dedicarsi a un’altra professione?
Sono stata sempre attratta dall’arte e dal restauro grazie alla raccolta di vasi e ceramica apula e italica che i miei antenati hanno collezionato tra gli anni ’20 e ’30 dell’800, oggi custoditi a Ruvo di Puglia, luogo delle mie vacanze. Da mia madre ho mutuato l’approccio concreto e pragmatico necessario all’attività di conservazione delle opere; mio padre, avvocato appassionato di storia, ci ha educato alla curiosità intellettuale. Un altro interesse che ho coltivato è lo sport: ho giocato tanti anni a pallavolo, smettendo quando ho avuto i figli, ma ho ripreso con un gruppo amatoriale. Praticare uno sport di squadra aiuta a lavorare in team e a confrontarsi con gli altri.
Sandra Fiore [da Almanacco della Scienza CNR, N. 2 – 27 gen 2021]