Nell’anno del bicentenario della nascita del compositore, Daniel Oren ha scelto di inaugurare la stagione con Rigoletto, seguito da Otello, Simon Boccanegra, e Nabucco, completando il cartellone con la popolarissima Bohème di Giacomo Puccini
Di Olga Chieffi, POSITANO NEWS
Rigoletto, il maledetto da sempre, un segnato da Dio, quasi consegnato fuori del tempo, ritornerà al massimo cittadino in aprile per inaugurare la stagione lirica del bicentenario verdiano. Un’opera della trilogia popolare non poteva mancare in un cartellone dedicato quasi esclusivamente a Giuseppe Verdi, dedicatario del nostro teatro, che Daniel Oren ha deciso di celebrare con altri tre interessanti titoli, l’ Otello, il Simon Boccanegra e il Nabucco, per concludere con una, speriamo giovanissima Bohème, naturalmente casse del comune permettenti, visto che le ultime due ultime rappresentazioni non sono state saldate ai professori dell’ Orchestra Filarmonica Salernitana. Un cartellone comprendente cinque titoli, che, unitamente ad una rassegna sinfonico cameristica, non escluderà certamente le celebrazioni wagneriane e britteniane. Riflettori, quindi, puntati su Rigoletto, il buffone gobbo che a Salerno ha avuto validissimi interpreti quali il giovane Devid Ceccon, definito amichevolmente da Peppe Iannicelli, “Rigolettone” e il grandissimo Renato Bruson, che a questo ruolo ha legato per sempre il suo nome, con la sua amata trama che viene saldamente riassunta nella forma classica del quartetto, che rispetta i canoni estetici del primo Romanticismo, ancora osservante delle forme classiche, snodantesi intorno alla melodia principale del tenore, che deve essere molto esposto, vero bersaglio delle mire di Rigoletto, che mormora nell’ombra, mentre le due donne restano invece soggiogate dal fascino del duca: Maddalena frascheggia, Gilda prende il motivo di lei, senza poterlo dominare perché frenata e interrotta dalla volontà del padre. Gemma della stagione sarà Otello, invocato da più anni dai melomani salernitani, una summa e allo stesso tempo un valore a se stante nell’ opera verdiana. Una visione unitaria del lavoro, realizzata da Verdi, la cui architettura poggia su organiche sezioni, bloccate intorno ad un corpo unico, dal quale deriva la vita, la contraddizione e l’umiliazione, la sofferenza della musica, che scende col suo eroe degradato, la scala di una gloria perduta verso l’ultimo nulla. Seguirà il Simon Boccanegra, altra scelta intellettualmente raffinata, da parte di Oren. Giuseppe Verdi, infatti, era affezionato a questa cupa storia di bassi e baritoni, un concentrato di temi a lui cari: i problemi della ragion di stato, la solitudine del trono, il divorzio tra il potere e gli affetti privati. Non si rassegnava al suo insuccesso, e in tarda età, dopo l’Aida e la Messa da Requiem, nel 1881, si accinse a raddrizzare le gambe di questo tavolo zoppo, come diceva lui, con la collaborazione librettistica di Arrigo Boito, che fu, tra l’altro, la prova generale della composizione di Otello. Mirabile il primo atto, dove alla improntitudine melodica, quasi un poco gaglioffa della prima parte, segue una colossale scena, interamente aggiunta nel rifacimento del 1881, che è una delle più grandi creazioni di Verdi, e pertanto dell’intera musica di ogni tempo e luogo. La rappresentazione del Nabucco è naturalmente un po’ telefonata, visto che il teatro Verdi ne possiede scenografie e costumi firmati da Quirino Conti realizzate per l’esecuzione del 2009. Nabucco è l’opera del “Va’, pensiero, sull’ ali dorate; va’, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal!”, il più famoso coro del melodramma italiano, col suo salto musicale di ottava su “ali”, come a spiccare idealmente il volo verso una libertà agognata, un diritto umano (“chi è libero di pensiero è già libero nello spirito” diceva un noto rivoluzionario). Un coro semplice, ad una voce (…né poteva essere altrimenti) che tutti noi potremmo anche cantare insieme ai maestri. Finale di stagione, in dicembre con la popolarissima Bohème, di Giacomo Puccini, con il freddo e Parigi che sono il suo fondale di verità. Tutta l’opera si svolge nell’attesa che Parigi resti tale senza più il freddo che, da reale, si assume presto a metafora dell’esistenza. Con Mimì cominciano le creature che passano nella vita senza una precisa ragione, salvo la loro precisa, inattaccabile innocenza.