Lo studio dei colori può aiutare a comprendere meglio il comportamento umano nel passato? È quanto ha provato a indagare un team di ricerca italo-egiziano, di cui ha fatto parte Giulio Lucarini, ricercatore dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) del Cnr di Roma e docente di Preistoria e Protostoria all’Università di Napoli l’Orientale, che ha analizzato le pitture rupestri della Grotta dei nuotatori, nell’altopiano egiziano del Gilf-Kebir. Magnifico esempio di arte rupestre preistorica, la Grotta presenta, tra i vari soggetti dipinti o incisi, numerose figure di esseri umani che sembrano “nuotare”, dipinti sulle sue pareti di arenaria. Il sito, noto al pubblico prevalentemente per aver ispirato una location del romanzo e del film “Il paziente inglese”, è stato oggetto di studio nell’ambito del Programma ambientale di cooperazione italo-egiziana: i ricercatori hanno condotto un’approfondita analisi dei pigmenti utilizzati dagli artisti preistorici che, a partire da circa 8.000 anni fa, in pieno Olocene, ci hanno lasciato questa straordinaria testimonianza.
Lo studio, appena pubblicato sulla rivista scientifica “African Archaeological Review”, ha utilizzato metodologie mutuate dalla scienza dei materiali per acquisire informazioni sulle caratteristiche geologiche, mineralogiche e geochimiche dei colori utilizzati: studiare il passato a partire dai suoi “colori” rivela, infatti, nuovi elementi sul comportamento e lo stile di vita di coloro che hanno vissuto in epoche remote. “Indagare la natura dei numerosi pigmenti presenti nella Grotta dei nuotatori e nelle vicine Grotte degli arcieri e delle bestie – che spaziano dal bianco al giallo, passando per varie tonalità di rosso, ma comprendono anche rari pigmenti neri e verdi – ha permesso di capire come tali pigmenti venivano ottenuti e dove le materie prime utilizzate per la loro preparazione venivano ricavate, fornendo così informazioni precise sui possibili spostamenti e percorsi seguiti dai gruppi umani che popolavano la regione durante l’Olocene”, spiega Giulio Lucarini, che dal 2010 è anche vice-direttore del Gilf Kebir Archaeological and Conservation Project diretto da Barbara E. Barich, dell’Università di Roma Sapienza. “I pigmenti sono stati analizzati con tecniche di spettroscopia Raman e fluorescenza a raggi X, che hanno rivelato come gli artisti abbiano utilizzato, in prevalenza, materie prime coloranti di natura inorganica ampiamente presenti nell’area. Sono state, ad esempio, rinvenute sostanze coloranti bianche a base di caolino e altre argille caolinitiche, ocre rosse e gialle ottenute da minerali quarzosi contenenti ossidi di ferro e altre impurità, che poi venivano polverizzate e diluite. Proprio l’accessibilità delle arenarie del Siluriano – rocce sedimentarie localizzate principalmente sul versante nord-occidentale dell’altopiano – potrebbe essere uno dei fattori che hanno spinto i gruppi umani olocenici a una maggiore frequentazione di questa particolare area del Gilf Kebir per la produzione di arte rupestre”.
Se la reperibilità dei materiali è uno dei fattori chiave nella selezione e nell’utilizzo dei pigmenti, restano ancora zone d’ombra sul significato simbolico che poteva essere attribuito a essi e determinare se e come utilizzarli. “Con nostra grande sorpresa, tra le materie prime individuate è stata identificata, per la prima volta in giacitura geologica in Egitto, anche la lazurite, il minerale da cui si ricavava quel blu intenso così frequentemente usato nelle più tarde produzioni artistiche di periodo faraonico. In questo caso, però, non sembra che il blu sia stato utilizzato nelle rappresentazioni di arte rupestre. Questo porta a considerare anche gli aspetti legati alla scelta di particolari pigmenti, non solo in relazione alla loro disponibilità, ma anche in base al significato che essi potevano ricoprire per i nostri antenati, su cui sappiamo ancora molto poco”, aggiunge il ricercatore.
Sappiamo, infatti, che fin dalla più remota antichità, materie prime coloranti come l’ocra venivano utilizzate per la decorazione del corpo, così come in ambito funerario, attribuendo a esse una forte valenza simbolica. “Per molto tempo si è ritenuto che la nostra specie Homo sapiens sia stata la prima ad aver fatto uso di tali pigmenti. L’utilizzo delle materie coloranti è stato a lungo ritenuto uno degli indicatori di una modernità comportamentale riferibile solo alla nostra specie e non a quelle più antiche”, conclude Lucarini. “Studi più recenti hanno però rivelato un quadro più complesso, in cui appare chiaro che anche specie ritenute arcaiche, come quella Neanderthal, facevano uso di materie prime coloranti per finalità non utilitaristiche, cioè con una valenza decorativa; questo potrebbe indicare una capacità di pensiero simbolico da associare non esclusivamente alla nostra specie. In questo senso, approfondire lo studio dei pigmenti può davvero aprire nuove pagine per una più completa comprensione dell’evoluzione umana nei suoi aspetti comportamentali, culturali e cognitivi”.
Per saperne di più: Hamdan, Lucarini, Tomassetti, Mutri, Salama, Hassan, Barich, 2021. Searching for the Right Color Palette: Source of Pigments of the Holocene Wadi Sura Paintings, Gilf Kebir, Western Desert (Egypt). African Archaeological Review, 38: 25-47 –
Credits immagini: Carlos de la Fuente, Maria Cristina Tomassetti
Francesca Gorini [Almanacco della Scienza N. 6 – 24 mar 2021]