Lo scorso 3 Luglio, la Pro Loco di Mola Di Bari ha presentato il nuovo libro del nostro collaboratore, Vincenzo D’Acquaviva. Grande affluenza di pubblico per congratularsi con l’autore per un lavoro ben svolto e che racconta vicende della nostra marineria con annedoti e storie mai raccontate prima.
DI SEGUITO ALCUNI EPISODI SIGNIFICATIVI CONTENUTI
NEL VOLUME E RIEVOCATI DURANTE LA PRESENTAZIONE
“LA MARINERIA MOLESE NEL ‘900”
Vicende storiche e protagonisti: da Ləvàndə a Punéndə
9 Gennaio 1930:
La tragica scomparsa di 16 pescatori Molesi
Con l’ampliamento del porto, si registrò un nuovo impulso all’attività marinara. Infatti, l’applicazione a quasi tutte le barche di un apparato motore, dava una notevole spinta allo sviluppo della pesca sia sotto costa, sia nei paesi orientali (Egitto, Palestina e Grecia).
«Proprio in questo periodo, il 9 gennaio 1930, una immane tragedia gettava nel lutto e nella costernazione non solo l’ambiente della marineria molese, ma anche tutta la cittadinanza. Nei pressi di Lefchina, nelle acque di Corfù, ‘naufragarono’ due motopescherecci di Mola, la ‘Nuova SS. Addolorata’ e il ‘S. Spiridione’. I 16 uomini che facevano parte dei due equipaggi scomparvero insieme alle imbarcazioni e vane furono le ricerche del cacciatorpediniere ‘Poerio’ della Marina Militare inviato nella zona». Solo il corpo di un marinaio, Giacomo Caragiulo, venne ritrovato ‘spiaggiato’ sull’arenile delle coste greche.
A proposito della scomparsa dei marinai Molesi, esiste una versione in forma romanzata, e abbastanza verosimile dei fatti, frutto di un sogno fatto da Andrea (figlio di Vitangelo Caputo, uno dei due capi barca). I due pescherecci, ‘S. Spiridione’ e ‘Nuova SS. Addolorata’, dopo una pesca abbondante in acque greche, nei pressi del porto di Kèrkira, vedono spuntare, da dietro un promontorio, una nave militare con due cannoni sulla prora. Nello stesso istante dal porto escono due grosse motovedette, anche queste armate. Il caccia che hanno di fronte si mette di traverso sbarrando loro la strada e puntandogli contro i cannoni. Le due vedette affiancano i pescherecci e i marinai, senza divisa, impugnano fucili mitragliatori e intimano di fermarsi. Dopo essere saliti a bordo, si fanno consegnare tutte le casse di pesce affermando che quello è il “loro” mare e che anche il pesce gli appartiene. I pescatori Molesi vengono accusati alla stregua di ladri e assassini, insultati e fatti oggetto di sputi e offese varie. Seguono fasi concitate che sfociano in una sparatoria proveniente dalle motovedette. Le pallottole colpiscono uno a uno i nostri marinai. Vitangelo nel vedere il figlio Domenico, che sull’altra imbarcazione è stato colpito a morte, si lancia scavalcando la paratia e, dopo avere raggiunto e abbracciato il figlio morente, esclama disperato: “Dio, SIGNORE!…Dove sei?”. Ma l’anziano marinaio non può ascoltare la risposta di Dio che, come al solito, è in tutt’altre faccende affaccendato, mentre a sua volta viene colpito a morte da diversi proiettili. «Alcuni dei ragazzi si nascondono in fondo alla stiva, ma quelli non si limitano a sparare, ad un tratto decidono di speronare le due motobarche che, una volta colpite, affondano in pochi attimi con il loro tristecarico di vite. Spezzate. Come la carena delle barche. Insieme a queste consegnate al mare, inerme e silenzioso».
È utile sottolineare che i nomi di quei marinai Molesi, scomparsi misteriosamente il 9 gennaio 1930, vengono ricordati da una lapide posta di fronte al torrione, sulla Lungara Porto, proprio all’angolo dell’ex bar Saturnia. La lapide voluta dagli “Amici emigrati a Brooklyn”, porta la data del 25 gennaio 1931 e la significativa locuzione “con Fraterno Cordoglio”.
«La solidarietà scattò in paese. Il commerciante, che aveva venduto i due motori due mesi prima, congelò il suo credito, sospendendo la richiesta di pagamento delle rate. Il regime fascista, sulla spinta del podestà di Bari, Araldo di Crollalanza, stanziò una somma di quattordicimila lire per ognuno dei sedici marinai molesi da destinare alle famiglie».
Gaetano De Carolis soprannominato Tarzànnə
A proposito di personaggio, Gaetano De Carolis, soprannominato ‘tarzànnə’, tarzan, molto noto negli ambienti della marineria locale, è opportuno riportare quanto raccontato una mattina di settembre 2013, sul fronte mare di Mola, da Giuseppe Tribuzio (‘u fegghiə du pastàurə’, il figlio del pastore), che vide sfortunato protagonista, proprio il De Carolis.
Siamo intorno agli anni Sessanta. La vicenda si svolge nelle acque del mare di Siracusa, in Sicilia. Il motopesca comandato dal De Carolis si trova in alto mare per l’attività di pesca. Arriva il momento di tirare la rete a bordo. Nonostante gli sforzi, però, questa è molto pesante, e sembra contenere qualcosa di imprevisto. Per De Carolis si tratta di un siluro. Seguono fasi concitate e si decide di mollare la rete per poi tirarla nuovamente. Nel fare questa operazione, però, il malcapitato tarzan, si ritrova con un piede impigliato nella linciana della rete e finisce in mare.
A dispetto del soprannome, però, De Carolis, oltre a non saper nuotare è anche di corporatura robusta. Questi cerca di aggrapparsi a qualsiasi cosa. Fortunatamente, al momento dell’incidente, si ritrova a indossare un pastrano appesantito dalle tante squame della fauna marina accumulatesi nel tempo. Sarà la sua salvezza in quanto si rivela un incredibile salvagente.
L’equipaggio si affretta a calare in mare un paranco al quale il protagonista si aggrappa. Le peripezie di quel frangente non sono ancora finite. Nel mentre viene issato a bordo col bigo in tutta fretta, la cima sul tamburo del verricello si impiglia e De Carolis si ritrova tirato fino in cima all’albero. Il peso eccessivo fa spezzare la cima e Gaetano precipita rovinando sulla coperta del peschereccio.
Dopo essersi spogliato completamente, e con indosso solo le mutande, si copre il capo con un asciugamano, alla stregua di un arabo – De Carolis ha fatto non poche esperienze a Suez – e rivolto all’equipaggio dice: “adesso ve la vedete voi”. Detto ciò si ritira nella sua ‘gabina’, ‘a gabbèinə’, e vi rimane per tre giorni e tre notti.
Su questo personaggio esistono svariati aneddoti. La figlia Nadia, interpellata in proposito, ha raccontato che il soprannome ‘tarzànnə’, fu imposto al padre perché, in caso di maltempo e mare mosso, si faceva legare all’albero con una bandana in testa. Questa, comunque, sembra più una leggenda metropolitana.
Nino Acquaviva, invece, racconta che De Carolis, aveva l’abitudine di supplicare San Rocco affinché questi facesse arrivare il maltempo, si da costringere le altre imbarcazioni a rientrare in porto e rimanere da solo a pescare.
Ritella Pesce che fece causa alla Madonna
Altra figura carismatica nella famiglia Quaranta, è stata Ritella Pesce, detta ‘ciaulə’, cornacchia, trisavola da parte di madre che, giovane vedova, si ritrovò a dover sostenere un giudizio civile con la ‘Confraternita della Maddalena’, poiché impossibilitata, causa la scomparsa del marito in una campagna di pesca nel Mediterraneo, a pagare la decima, che tutti i pescherecci, all’epoca, versavano per convenzione quale contributo alla festa patronale.
A quel tempo era ancora vigente la consuetudine secondo cui i pescherecci in attività di pesca a Levante dovevano ‘donare’ alla chiesa, alla chiusura del ‘conto’, il quarto di una parte per la festività patronale. A tale riguardo, la moglie di Martino Pesce, Loreta Daniele (‘Ritéllə a ciaulə’), una volta ritornate le imbarcazioni da Levante, a tale richiesta, inopportuna e non ‘dovuta’, oppose un secco rifiuto. I rappresentanti ecclesiastici ricorsero in giudizio per ottenere la ‘decima’, un’imposta dal sapore tipicamente medievale. L’esito della causa vide la soccombenza della parte ricorrente. La vittoria di Loreta portò inevitabilmente al superamento dell’iniquo balzello da parte di tutti gli armatori.
Sta di fatto che la vedova Ritella vinse la causa in tribunale, ma perse quella con i suoi concittadini che la indicarono al pubblico ludibrio per avere “fatto causa alla Madonna”
L’eredità lasciata da Cesario Laterza
A detta di molti pescatori Cesarino Laterza era molto in gamba nel suo lavoro. Per la Signora Rosa Leone, consorte di Cesario: “Ricordo che arrivava nel porto di Mola verso la mezzanotte e scaricava quantità di pesce che veniva comprato dai commercianti all’ingrosso, ‘i viatəcǻrə’ (acquirente/fornitore, che acquistava il pesce all’ingrosso per rivenderlo) di Brindisi, Otranto e Molfetta. Mio marito conosceva dei posti molto pescosi e cercava di mantenere il segreto. La qualità e quantità del pesce pescato era ottima”.
Solitamente Cesario lasciava il porto a notte fonda e a luci spente per non essere seguito. Una sera, però, alcune barche lo seguirono per vedere dove si recava a pescare. Mio marito decise di cambiare rotta per evitare che costoro scoprissero dove andasse. Bisogna dire che la competizione a quel tempo era molto forte.
La figlia Teresa aggiunge la circostanza scondo la quale “durante la malattia, altri pescatori venivano a domandare di indicare sulle carte nautiche i posti che aveva scoperto ‘forə Maulə’, fuori Mola. Tra questi Giacomino Franzese, Rocco Russo, barba di ovatta, ecc.; anche se va detto che, proprio per la sua spericolatezza nel cercare posti nuovi, spesse volte ha lacerato le reti”.
Ricordo che spesso, durante il periodo della sua malattia, alcune persone venivano a casa a chiedergli di indicare i punti esatti dove andare a pescare per fare pesche abbondanti come lui aveva fatto per anni. Negli ultimi tempi venne a più miti consigli con gli altri pescatori e rivelò i suoi segreti.
Per Teresa “avere rivelato i punti dove pescare in abbondanza può essere considerata alla stregua di una eredità lasciata ai pescatori Molesi”.