Un team del Consiglio nazionale delle ricerche ha indagato una delle opere più importanti del maestro americano del dripping, per fare luce su materiali costitutivi, tecnica esecutiva e stato di conservazione del capolavoro tornato nelle sale della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia dopo il restauro. Una mostra visitabile da domani fino al 6 aprile illustra il progetto conservativo
Il titolo suggerisce già la complessità esecutiva dell’opera. Alchimia, realizzata da Jackson Pollock nel 1947 con la rivoluzionaria tecnica del dripping (facendo sgocciolare il colore sulla tela distesa per terra), è una stratificazione di colori e materiali diversi che hanno richiesto un delicato intervento conservativo. Il Consiglio nazionale delle ricerche ha eseguito una serie di indagini scientifiche fondamentali per procedere al restauro, i cui risultati sono illustrati nell’ambito della mostra Alchimia di Jackson Pollock. Viaggio all’interno della materia, aperta da domani 14 febbraio fino al 6 aprile a Venezia, presso la Collezione Guggenheim di cui il capolavoro fa parte.
Il Molab-Cnr, Laboratorio mobile per indagini non invasive sulle opere d’arte costituito da Istituto di scienze e tecnologie molecolari (Istm-Cnr), Istituto nazionale di ottica (Ino-Cnr) e del Centro SMAArt di Perugia, con alcuni importanti interventi nei maggiori musei italiani ed europei al suo attivo, ha messo in campo metodologie ottiche che hanno permesso di acquisire informazioni sulla distribuzione dei materiali e sulla tecnica pittorica dell’artista.
“Il Molab-Cnr nel 2013 ha eseguito una campagna conoscitiva delle opere di Pollock esposte nelle sale del Guggenheim attraverso tecniche spettro-analitiche, per poi approfondire le indagini su Alchimia con il rilievo morfologico con microprofilometria laser della tela dal retro”, spiega la coordinatrice Costanza Miliani. “Abbiamo rilevato quindici diversi tipi di pigmenti, tra i quali l’oltremare, il blu e verde ftalo, solfo-seleniuri di cadmio, viridian, bianco di zinco e titanio e una resina alchidica, prodotto per pittura industriale, usata per la prima volta da Pollock per la sua più elevata velocità di polimerizzazione rispetto ai tradizionali leganti ad olio per artisti. Riguardo allo stato di conservazione, la pittura presentava depositi di pulviscolo atmosferico e composti indotti dal degrado chimico di alcune componenti originali, mentre la tela evidenziava deformazioni indotte dal carico del materiale pittorico”.
Si deve invece al Visual computing lab dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione (Isti-Cnr) di Pisa il modello tridimensionale di Alchemy. “Composto da 80 milioni di triangoli, è stato prodotto e arricchito integrando i dati geometrici con riprese mediante scanner multispettrale”, spiega Roberto Scopigno dell’Isti-Cnr. “Inoltre abbiamo messo a punto un software per la visualizzazione interattiva, che permette di ingrandire i particolari dell’opera, modificare l’illuminazione o eliminare il colore per esaltare le caratteristiche geometriche della superficie pittorica”.
Elemento integrante della mostra, il video prodotto dalla web tv del Consiglio nazionale delle ricerche che ripropone le fasi salienti del progetto conservativo dedicato ad Alchemy. Il documentario integra frammenti di un’intervista a Peggy Guggenheim, nel quale la mecenate e collezionista spiega come scoprì il talento di Pollock, con foto storiche, immagini che documentano le indagini del Molab a Venezia e del restauro presso l’Opificio delle pietre dure di Firenze e testimonianze degli operatori.