Maurizio Gentilini dell’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Cnr ci parla della storia dello stoccafisso, merluzzo pescato nei gelidi mari artici ed essiccato dai venti scandinavi: una delle basi della cultura alimentare europea
Il cibo (e le sue forme) supera le cesure cronologiche che noi diamo alla storia e alle sue ere. Esso fa parte dell’humus culturale delle civiltà che passano e, a volte, è l’unico elemento che persiste; e di solito persiste nella cultura popolare. Uno dei principali problemi dell’uomo di terra e di mare è sempre stato quello di conservare il cibo che faticosamente era riuscito a procurarsi. In questo senso, la storia dello stoccafisso – il merluzzo dell’Artico norvegese essiccato, compresi gli elementi culturali legati alla sua produzione e lavorazione, al suo commercio e consumo – è emblematica per stabilire un nesso tra il freddo e l’alimentazione umana.
Le rotte commerciali basate sullo stoccafisso scandinavo, inaugurate dal mercante Pietro Querini nel XV secolo e convergenti sulla città di Venezia, rappresentano una sorta di omologo della via della seta (anche questa idealmente riferita alla Serenissima, in virtù della figura di Marco Polo) con altro orientamento e coordinate. Per il navigatore veneziano, naufragato alle isole Lofoten, dovette essere una scoperta sensazionale imparare dalle piccole comunità norvegesi il più naturale sistema di conservazione: l’essiccamento al vento e al (pallido) sole del circolo polare. Una tecnica concepita nella notte dei tempi in quelle remote contrade per trasportare sulle imbarcazioni alimenti molto leggeri che potessero fornire il massimo delle energie per sfamare le ciurme addette ai remi e alle vele (100 grammi di merluzzo fresco forniscono circa 70 calorie, mentre con quello essiccato salgono a 350). Se i popoli vichinghi sapevano trattarsi di un pesce sano, nutriente e poco grasso, la scienza moderna ha poi sancito che è anche ricco di omega3, proteine, vitamina B12 e sali minerali (fosforo, calcio, selenio e ferro). Lo stoccafisso è traduzione assonante del nordico “stockfish”, che significa “pesce bastone” per la sua rigidità. È un pesce da magazzino e da cambusa, per la facilità con cui può essere, appunto, stoccato. Leggerezza, facilità di trasporto, conservazione e consumo, contribuirono in maniera decisiva al successo dello stoccafisso nei secoli. Lo sviluppo dei trasporti delle merci via mare fu enormemente favorito dalla possibilità di usare questo alimento, che ben sostituiva quelli facilmente deteriorabili. Nel Medioevo, il commercio del merluzzo ebbe una immensa importanza. Divenne una sorta di moneta di scambio con tedeschi, olandesi, britannici e altri popoli dell’Europa del Nord. Merluzzo secco in cambio di grano, birra e tessuti. Per regolarne il valore e il mercato, alle navi della Lega Anseatica venne proibito di salire a nord del parallelo di Tromsø.
Poco o nulla è cambiato dall’epoca in cui Querini approdò nelle isole Lofoten e, ancor oggi, le modalità dell’esposizione del merluzzo all’aria aperta mantengono tutte le caratteristiche sedimentatesi e codificate nei secoli e una ritualità dai tratti ancestrali. In ogni paesino, accanto alle case, c’è il magazzino della lavorazione del pesce dove i merluzzi appena pescati subiscono il primo trattamento con il taglio delle teste e delle interiora, destinate alla trasformazione e ai mercati più poveri. Il corpo del pesce viene messo a essiccare sui graticci di legno collocati ai margini dei centri abitati. Il processo dura almeno tre mesi e si chiude da sempre con il solstizio d’estate. A San Giovanni (il 24 giugno) in ogni paese vengono accesi grandi fuochi per segnalare che è tempo di ritirare i merluzzi ormai secchi.
Il merluzzo essiccato è uno di quegli elementi che, come pochi altri, costituiscono “materia prima” di culture e preparazioni alimentari molto distanti tra loro. Può essere pertanto considerato “strumento di inculturazione”, ovvero elemento di base accoppiato a ingredienti tipici di una molteplicità di luoghi e aree geografiche. Il primo di questi accoppiamenti si evince già dal rapporto per il governo della Repubblica di Venezia steso dal Querini al suo ritorno dalla Norvegia, dove parla della lavorazione dello stoccafisso e del suo consumo condito con il burro. E gli accoppiamenti del pesce secco dei mari del nord con prodotti tipici delle regioni in cui verrà esportato nel corso dei secoli genereranno infinite ricette e modalità di consumo. Va comunque chiarito che il merluzzo della specie Gadus morhua, essiccato ai gelidi venti artici, si consuma per la maggior parte in Italia. In tutto il resto del pianeta prevale l’uso del baccalà, ovvero il merluzzo conservato sotto sale, che lo mantiene morbido e umido. Il consumo nella Penisola si concentra essenzialmente in Veneto, Liguria, Calabria, Sicilia, e Campania (esiste tuttavia un’antica tradizione nelle zone di Livorno e di Ancona), regioni nei cui porti lo stoccafisso approdava con le navi mercantili nei secoli addietro.
Le associazioni a condimenti e ad altri alimenti diventeranno pressoché infinite, espressioni di culture e costumi alimentari regionali ed etnici che genereranno un autentico mosaico di sapori. Qualche esempio: olio (in tutta l’area mediterranea), latte e polenta (nelle zone di terra del Triveneto), cipolla (il pesce accoppiato alla cipolla è un uso tipico dell’alto Adriatico, ma non del resto del Mediterraneo), patate (dopo che vennero importate dal Perù nel 1540), pomodoro (quando giunse in Europa al seguito di Hernan Cortes e dopo i primi studi di Pietro Andrea Mattioli), olive e peperoncino (tipico delle ricette calabresi), pastellato e fritto (secondo le tradizioni della cucina romanesca, imbevuta di cultura ebraico-sefardita), con uva passa e pinoli (in Sicilia, ma si tramanda si tratti di un costume mediorientale importato dai crociati).
Lo stoccafisso è comunque un cibo che ha sempre superato le frontiere politiche e culturali. Basti pensare come – agli inizi dell’evo moderno – la via del merluzzo essiccato abbia attraversato senza particolari dazi i confini tra i nascenti stati nazionali e quelli tracciati tra i Paesi che aderirono alla Riforma e le terre cosiddette “cattoliche”. Queste ultime semmai favorirono indirettamente il consumo di merluzzo, anche sulla base di disposizioni canoniche, elaborate non solo su base teologica. Nel mondo cristiano l’astinenza dal consumo delle carni risale a tempi molto antichi, con radici nelle Sacre Scritture, praticata già dalle prime comunità e perpetuata nella tradizione della Chiesa. Nel corso della storia, approssimandoci ai nostri giorni, questa pratica penitenziale si è concentrata nel ed è stata identificata con il giorno di venerdì, in considerazione della memoria della passione di Cristo.
Nell’ultima sessione (1563) del Concilio di Trento – nelle more delle decisioni che avrebbero portato, di lì a pochi anni, alla riforma del calendario giuliano con quello gregoriano perpetuo – vennero rivisti i giorni dell’anno da considerarsi festivi, quelli in cui osservare il digiuno e in cui astenersi dalle carni, e l’elenco dei cibi vietati nei giorni di magro, che in pratica divennero più di 150. Tra gli alimenti ammessi c’era il pesce, che per le popolazioni non costiere era però costoso e facilmente deperibile. Una soluzione al problema la suggerì uno dei padri conciliari, Olaf Manson, arcivescovo di Uppsala (ma da tempo residente a Roma) interessato allo spirito della riforma della Chiesa, ma anche alle fortune commerciali dei suoi conterranei. Nel 1555 pubblicò e diffuse tra i colleghi partecipanti al Concilio la ”Historia de gentibus septentrionalibus”, con molte descrizioni della cultura e degli usi delle popolazioni scandinave. Nella Historia tesseva le lodi di un pesce detto “merlusia”, che abbondava nei mari del Nord ed era perfetto per essere essiccato o messo sotto sale, per la sua convenienza economica e per ottemperare alle disposizioni ecclesiastiche del mangiare magro. Grazie a questa promozione, il merluzzo conservato, già conosciuto da un centinaio di anni, ma importato dalla Norvegia con modesto successo, avrebbe messo in moto un fiorentissimo commercio e si sarebbe diffuso tra le popolazioni italiche cambiandone le abitudini alimentari e culinarie.
Merluzzo simbolo del “mangiare di magro”, pietanza emblema di parsimonia e di fantasia, catalizzatore del talento di massaie, osti e frati francescani addetti alle mense dei bisognosi, capaci tanto di creare piatti gustosi quanto di far quadrare i bilanci.
Oggi che al precetto religioso dell’astinenza dalle carni e del digiuno si è sostituito il disciplinare laico dell’alimentazione sana e ipocalorica, il merluzzo si sta riprendendo qualche bella soddisfazione, diventando spesso protagonista delle mense più altolocate e delle tavole più snob. Oltre al gusto e alla varietà di impieghi, contribuiscono alla sua fortuna l’abbondante disponibilità di Omega3, elemento capace di combattere ed esorcizzare alcuni dei peggiori fantasmi del nostro tempo: il subdolo colesterolo e i diabolici radicali liberi. Una nemesi e una rivincita di quella che, per secoli, era stata solo una “magra consolazione”.
[Almanacco della Scienza N.11, Dicembre 2024]