Di Federico Scatamburlo e Salvatore Margarone
Fu lo stesso Wolfang Amadeus Mozart a dirigere la prima rappresentazione della propria opera, il Flauto Magico (Die Zauberflöte), nel lontano settembre del 1791. Accolta al primo atto freddamente, finì poi per ottenere un buon successo. Il libretto scritto dal cognato di Mozart, Emanuel Schikaneder, almeno nello scopo originario, riflette gli obiettivi spettacolari cui si ispira nella fase iniziale, ovvero il cosiddetto genere Singspiel: la stesura orchestrata da Mozart alternava semplicemente parti drammatiche a parti buffonesche, e successivamente queste vennero arricchite da ispirazioni chiaramente massoniche, oltre che a una ricca messa in scena, conferendo così alle avventure dei personaggi un significato più alto e inatteso, raccontando un fiabesco e fantasmagorico “rito di iniziazione” superato il quale i protagonisti potranno coronare il loro sogno d’amore.
Le fiabe, si sa, possono essere narrate e reinventate in molti modi. Per chi ama gli allestimenti tradizionali, può risultare quasi fastidioso quando una storia fantastica fatta di amori contrastati, prove eroiche e personaggi burleschi si ritrova improvvisamente in ambienti lineari, cupi o luminosissimi. Tuttavia, passato lo sgomento iniziale, seguire la storia in una scenografia inusuale può funzionare ed essere anche divertente, anche se resta sempre un po’ di nostalgia per quegli elementi scenici fondamentali alla storia che vengono relegati a metafore appena accennate, come, per esempio, in questo caso, il serpente che viene ucciso all’inizio del primo atto e che è, e rimane, una semplice e indistinta sagoma in tutta l’opera.
Anche in questa domenica 30 ottobre 2016, il pubblico ha timidamente applaudito il primo atto, per poi passare alle ovazioni nel secondo, per una modernissima messa in scena audacemente azzardata in cartellone dal Teatro Verdi di Padova, in collaborazione con il Teatro Sociale di Rovigo e Bassano Operafestival. Chi scrive non può essere che d’accordo con il pubblico in sala: i riferimenti del libretto originale fin da subito vengono stravolti e reinterpretati nel primo atto dove il mondo onirico in cui si trovano i protagonisti inizialmente non è altro che una squallida periferia di una indefinita città che, nel dipanarsi del sogno, diventerà nel secondo atto un tempio minimalista di un bianco abbagliante, come anche i suoi abitanti.
Questo strano allestimento è stato ideato dal regista Federico Bertolani insieme allo scenografo Giulio Magnetto e il costumista Manuel Pedretti, i quali, che piaccia o no, sono perfettamente riusciti nel loro intento di conferire un’impronta modernissima all’opera, trasportandola fuori tempo e spazio insieme ai suoi personaggi e, perché no, agli spettatori.
Perfettamente calati nelle loro parti gli artisti di questa rappresentazione, pur essendo di carature ben diverse tra loro. Indiscussamente spicca tra tutti Papageno, interpretato da John Chest. Inguainato in una lucida tuta arancione con richiami di piume azzurro intenso, questo baritono americano ha emozionato e divertito, con buona interpretazione soprattutto dal punto di vista drammatico anche se la voce a volte risultava un po’ ballerina.
Fabrizio Paesano ha invece dato la voce a Tamino: drammaturgicamente corretto non si è però distinto in maniera particolare per le doti canore, con voce piccola e che a stento arrivava in sala.
Buonissima la performance di Ekaterina Sadovnikova, nei panni di Pamina. Con buona dizione (ricordiamo che l’opera è in tedesco), e un ottima resa scenica, ha emozionato l’uditorio, specialmente nell’aria del secondo atto “Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden”.
La protagonista sarà ostacolata nei suoi intenti amorosi dalla sua stessa madre, la Regina della Notte, interpretata da Christina Poulitsi, che nel primo atto non ha dato grande prova di sé, ma si è decisamente riscattata nel secondo. Splendida l’esecuzione della famosissima “Der Hölle Rache kocht in meinem Herze” (La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore) dove esibisce ottime agilità vocali (quest’aria richiede precise doti di coloratura) imponendo alla figlia di uccidere il suo rapitore, Sarastro.
Quest’ultimo è Wihelm Schwinghammer, basso dalla dizione chiara e precisa, con fraseggi e gusto musicali notevoli, perfetti per il suo imperioso personaggio che inizialmente sembra un tiranno ma che in realtà rapisce Pamina per proteggerla dalla crudele madre.
Le Tre Dame, che sono ai servizi della Regina della Notte, e che spiano e controllano i sudditi (in questo particolare frangente Papageno), e il cui loro unico scopo è aiutare la Regina nella distruzione di Sarastro, in questa regia sono tutt’altro che dame, ma signorine non proprio “per bene”, con tanto di tacchi alti, vestiti e parrucche coloratissime. Peccato per le voci non all’altezza, stridule e poco amalgamate quelle di Alice Chinaglia, Cecilia Bagatin, Alice Marini, che si sono coraggiosamente cimentate in una parte particolarmente difficile.
Il cast è stato completato con Teona Dvali (Papagena), Patrizio Saudelli (Monostatos), sulle cui interpretazioni preferiamo sorvolare, e Paolo Battaglia (Oratore degli iniziati), Carlo Agostini (Primo sacerdote/ Secondo armigero) e Luca Favaron (Secondo sacerdote/ Primo armigero), Stella Capelli, Federico Florio e Maria Gioia (i fanciulli, bellissima la loro performance che a libretto è prevista per voci bianche).
Senza lode e senza infamia l’Orchestra di Padova e del Veneto, diretta da Giuliano Betta: esecuzione scolastica, con tempi lunghissimi e pause fuori luogo; sonorità e volumi incostanti e mal concertati, i cui suoni erano quasi sempre ovattati, dando la sensazione di opacità, come contenuti in una bolla di sapone. Discutibili, inoltre, alcuni momenti musicali, da imputare ovviamente alle scelte della direzione orchestrale.
Inascoltabile invece, specie nella sezione maschile, il Coro Lirico Veneto, diretto dal M° Sergio Balestracci: attacchi sbagliati, voci mal amalgamate, con un tenore che spesso preponderava su tutti gli altri con effetto piuttosto fastidioso, in contrapposizione al comparto femminile decisamente migliore.
È doveroso tuttavia concludere con una considerazione oltremodo positiva: considerando che a Padova non vengono spesso messe in scena opere di rilievo, è davvero ammirevole il tentativo dell’organizzazione del Teatro Verdi, nell’aver “osato” proporre un opera non facile, in lingua, difficilissima per tutti gli interpreti e con una messa in scena così particolare, riuscendo tuttavia nell’intento di stupire il numeroso pubblico intervenuto (il teatro era tutto esaurito), che ha lungamente applaudito al termine della rappresentazione. Ci auguriamo che si possa assistere ancora, in un prossimo futuro, a spettacoli di questo tipo, così rari nella nostra città.
Photo ©Lazio Rinaldi
Teatro Verdi, Padova
Die Zauberflöte
(Il flauto magico)
Singspiel in due atti
musica di Wolfgang Amadeus Mozart
libretto di Emanuel Schikaneder
personaggi e interpreti:
Sarastro Wihelm Schwinghammer
Pamina Ekaterina Sadovnikova
Tamino Fabrizio Paesano
Regina della notte Christina Poulitsi
Papageno John Chest
Prima dama Alice Chinaglia
Seconda dama Cecilia Begatin
Terza dama Alice Marini
Monostatos Patrizio Saudelli
Oratore Paolo Battaglia
Primo sacerdote/ Secondo armigeno Calro Agostini
Secondo sacerdote/primo armigeno Luca Favaron
ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO
Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Giuliano Betta
Coro Lirico Veneto
Maestro del Coro Sergio Balestracci
Regia: Federico Bertolani
Costumi: Manuel Pedretti
Scene: Giulio Magnetto
Nuovo allestimento in coproduzione con il
Teatro Sociale di Rovigo e Bassano Operafestival.