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Ventimila leghe sotto i mari. Con il batiscafo

di Ester Cecere

Ester Cecere dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr parla della storia e delle possibilità offerte da questo mezzo, che permette di esplorare gli abissi marini, svelandone la biodiversità e consentendo di cercare qui preziose fonti di idrocarburi

Conosciamo meglio lo spazio che le profondità marine. A partire dal 1961, i voli nello spazio con equipaggio umano sono stati 355, mentre di immersioni per raggiungere la Fossa delle Marianne a bordo di batiscafi se ne contano solo tre. La Fossa delle Marianne, situata nella zona nord-occidentale dell’Oceano Pacifico in prossimità delle Isole Marianne appunto, è la più profonda depressione oceanica ed è compresa tra i 10.898 e i 10.994 metri sotto il livello del mare. A rendere possibile il raggiungimento di simili profondità è stato il batiscafo (dal greco “bathus” profondo e “skàphos” nave, quindi, scafo che si può immergere in profondità). Questa unità sommergibile ad auto-propulsione, adatta per immersioni a profondità maggiori di quelle normalmente raggiunte dagli attuali sommergibili militari (poche centinaia di metri) è progettato in modo da resistere a pressioni elevate. È necessario ricordare che in mare la pressione aumenta di 1 atmosfera ogni 10 metri, pertanto, la pressione sul fondo della Fossa raggiunge le 1.064 atmosfere, cioè è 1.064 volte superiore a quella che insiste sulla superficie terrestre a livello del mare.

L’esplorazione degli abissi marini è sempre stata il sogno proibito dell’umanità. I primi tentativi di raggiungere le profondità marine risalgono al IX secolo a.C., quando gli Assiri  rappresentarono uomini che respiravano aria conservata in anfore pochi metri sotto il livello del mare. In tempi più recenti, Leonardo da  Vinci immaginò uno scafo che si poteva immergere sotto la superficie del mare. Il “primo mezzo sottomarino di pace, per ricerche scientifiche” fu un batiscafo artigianale progettato dall’italiano Pietro Vassena, che il 12 marzo 1948, a largo di Argegno, sul lago di Como, scese a -412 metri, stabilendo così il record mondiale di profondità dell’epoca.

Tuttavia, il primo batiscafo vero e proprio, adatto a immersioni marine, fu l’Fnrs-2, costruito in Belgio da Auguste Piccard, il cui collaudo non fu però soddisfacente. Al contrario, il secondo batiscafo, progettato sempre da Piccard con il figlio Jacques, fu il “Trieste I”, costruito dai cantieri navali di Monfalcone. Nel 1960, il “Trieste”, con a bordo e Don Walsh, della Marina Militare statunitense, stabilì il record mondiale di immersione, ancora oggi imbattuto, raggiungendo il punto più profondo della Fossa delle Marianne. Dall’interno della batisfera, i due uomini osservarono sul fondo dell’oceano sogliole o platesse, la cui presenza fugò ogni dubbio sull’esistenza di forme di vita anche a questi altissimi valori di pressione.

Successivamente, il 26 marzo 2012, un’immersione fu realizzata anche dal regista James Cameron e, nel maggio 2019, da Victor Vescovo, miliardario texano con la passione per l’esplorazione. Nel 1995 e nel 2009, nella Fossa delle Marianne ci sono state altre discese di veicoli robotizzati, privi quindi di equipaggio e comandati a distanza dagli scafi.

I batiscafi, che col progredire della tecnologia sono stati dotati di sempre più ampie e resistenti cupole trasparenti che permettevano una maggiore panoramica del mondo subacqueo, sono serviti prima di tutto a colmare l’insaziabile curiosità dell’uomo, che per secoli si è chiesto cosa si celasse nelle profondità abissali, che immaginava popolate di mostri feroci. Infatti, il sommergibile “Jago”, costruito nel 1989 per il tedesco Istituto Max Planck di Fisiologia del comportamento, permise di verificare l’esistenza, a -400 metri, dei celacanti, pesci ossei risalenti a 410 milioni di anni fa, che vengono considerati fossili viventi.

Altra pietra miliare nella storia dei batiscafi è stata il “Lula 1000”, commissionato in Portogallo nel 2011 dalla Fundação Rebikoff-Niggeler per localizzare i calamari degli abissi marini. E non si può non citare il “Triton 3300/3”, che consente immersioni fino a -3.300 metri, ambito da ricercatori e documentaristi, comprese le troupe che hanno realizzato i programmi “Blue Planet II” della Bbc e “Barrier Reef” con il naturalista e divulgatore David Attenborough.

I batiscafi sono stati dunque fondamentali per la conoscenza della biodiversità degli abissi marini; hanno permesso di scoprire che a migliaia di metri di profondità, dove si pensava che i fattori ambientali (pressione altissima, assenza totale di luce, temperature prossime a 0°C) rendessero proibitiva l’esistenza di esseri viventi, la vita invece pullula. Spedizione dopo spedizione, i ricercatori hanno mostrato la presenza di moltissime specie appartenenti a gruppi tassonomici diversi, quali anemoni, vermi, crostacei e cetrioli di mare giganti, e di numerosissime specie delle quali circa il 90% di quelle osservate durante ogni esplorazione erano sconosciute.

Ma non finisce qui. Le esplorazioni con i batiscafi sono state utili anche per la ricerca di fonti sottomarine di idrocarburi. È questo il caso del batiscafo russo Mir-2, che è arrivato a 4.302 metri di profondità, toccando il fondo marino del Polo Nord il 2 agosto 2007. I batiscafi hanno permesso poi di rinvenire a profondità notevoli (da -1.000 a -4.000 m) distese di noduli polimetallici e di camini idrotermali. I primi, che ricoprono in grande quantità le piane abissali, sono concrezioni minerali di rame, nichel, manganese e numerosi altri metalli preziosi. I camini idrotermali, detti anche fumaioli neri (o black smokers), sono costituiti da solfuri polimetallici, ricchi soprattutto di ferro, rame, manganese e zinco. Essi sono formati dalle acque marine profonde che risalgono dalla crosta terrestre e fuoriescono sul fondo del mare a una temperatura di circa 400°C. L’incontro con l’acqua molto fredda delle profondità oceaniche determina una brusca variazione di temperatura che fa sì che i metalli in soluzione, di cui le acque si sono arricchite, vengano depositati intorno alle fratture da cui sono fuoriusciti, dando origine ai camini idrotermali, alti anche 30 metri. Essi furono scoperti nel 1979, nell’oceano Pacifico, dal sottomarino da ricerca americano “Alvin”.

Questi ritrovamenti hanno scatenato gli appetiti di molte nazioni che mirano a recuperare tali materiali, dando origine a un nuovo aspetto dell’industria estrattiva, detta “deep sea mining”. A determinare tanto interesse è il desiderio di raggiungere il cosiddetto “net zero”, cioè l’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica, il principale gas serra, tramite la transizione ecologica, e per farlo sono necessari materiali, quali il cobalto, il rame, il litio, il neodimio e il disprosio, metalli appartenenti al gruppo delle terre rare. Queste ultime sono fondamentali per l’economia presente e futura. Infatti, vengono utilizzate nel settore dell’industria automobilistica (soprattutto per le auto elettriche e ibride), per le batterie ricaricabili, come magneti permanenti per le turbine eoliche; possono diventare fosfori per tv e schermi a cristalli liquidi e, in generale, sono importanti per la realizzazione di tutti i dispositivi elettronici di ultima generazione. Inoltre, servono per sviluppare tecnologie di avanguardia nel campo aerospaziale, militare e delle energie rinnovabili, e l’Europa scarseggia di tali materiali.

Non è difficile prevedere le future possibili conseguenze di questa attività estrattiva sulla biodiversità degli ambienti marini profondi, attività che ha già sollevato le enormi e comprensibili preoccupazioni degli scienziati e degli ambientalisti. Adriana Dutkiewicz, della Arc Future Fellow della School of Geosciences dell’Università di Sydney, incuriosita dal mancato ricoprimento dei noduli polimetallici da parte del sedimento marino, ha scoperto che essi vengono mantenuti “puliti” dagli organismi che vivono sul fondo, quali stelle marine, polpi e molluschi. Ha quindi concluso che gli ecosistemi e i noduli d’alto mare sono inestricabilmente connessi. Pertanto, l’estrazione dei noduli deve essere valutata attentamente poiché potrebbe avere implicazioni sulla biodiversità abissale, ancora largamente sconosciuta.

[Almanacco della Scienza No. 9, ottobre 2023]

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