Intervista di Tiziano Thomas Dossena
Guido Mattioni è udinese per nascita (1952), milanese d’adozione e cittadino onorario di Savannah, la località americana dove ha ambientato Ascoltavo le maree (Ink, 2013), romanzo d’esordio (quattro ristampe) adottato dalla Georgia State University di Atlanta come testo nei corsi di Italiano. La versione inglese – Whispering Tides – ha vinto la sezione Multicultural Fiction ai Global Awards 2013 di Santa Barbara, California. Da giornalista (iniziò con Indro Montanelli) ha lavorato nei quotidiani e nei periodici ricoprendo quasi tutti gli incarichi: cronista, caporedattore, vicedirettore e inviato speciale in tutto il mondo, in particolare negli States, dove ha ambientato anche il suo secondo romanzo, Soltanto il cielo non ha confini (Ink, 2014), un intreccio di sogni e drammi lungo il confine caldo tra Usa e Messico. A fine giugno 2015 è stata pubblicata Conoscevo un angelo (Ink), la sua terza storia made in Usa dedicata ai milioni di americani in perenne movimento da uno Stato all’altro. Guido è sposato con Maria Rosa, oncologa (da: formiche.net).
In attesa di completare la recensione del suo ultimo romanzo, ho avuto l’opportunita` di intervistare questo simpatico e valido scrittore…
L’Idea: Il tuo primo libro, Ascoltavo le maree, è parzialmente autobiografico e si svolge quasi interamente a Savannah, Georgia, che tu descrivi ampiamente ed in maniera positiva. Qual è oggi il tuo rapporto con quella città? A parte la scelta finale di vita, in che cosa trovi differente il tuo personaggio principale da te stesso?
Guido Mattioni: Direi che il rapporto con Savannah è rimasto lo stesso, immutato, dal primo giorno in cui ci capitai per la prima volta, nel 1991, con la mia prima moglie Paola, scomparsa improvvisamente nel 2002: e mi riferisco a quel rapporto speciale che può legare un essere umano a un “altrove” lontano e diverso da quello in cui è nato o vive abitualmente. Insomma, per dirla come dite voi in America, per me Savannah rimane ciò che fu da subito per me e Paola: una home away from home. E il fatto che quel rapporto, ma anche i tanti carissimi amici che ormai ho laggiù, siano diventati da subito gli stessi anche per la mia seconda moglie, Maria Rosa, mi fa pensare che il fatto di essere capitato a Savannah quel giorno non si possa attribuire al caso. Del resto la vita mi ha insegnato a non credere al caso, ma piuttosto a dei live path già tracciati. E che noi, in fondo, ci limitiamo a percorrere. Quanto alla seconda parte della domanda, direi che tra me e Alberto Landi, il protagonista, la sola vera differenza è che io non ho ebbi tanti anni fa il coraggio (o la possibilità concreta) di attuare quel cambiamento di vita così drastico e definitivo. Così l’ho fatto fare a lui, nel mio romanzo.
L’Idea: Il tuo secondo libro, Soltanto il cielo non ha confini, è praticamente un giallo a forte cariche emotive e si svolge al confine con il Messico. In esso, le tue spiegazioni sull’emigrazione, legale e non, che avviene come flusso continuo nella direzione degli USA sono molto accurate ed interessanti. Cosa pensi della nuova direzione che l’America dovrebbe prendere nel trattare il problema emigrazione secondo il neoeletto presidente Trump?
Guido Mattioni: Devo premettere che, da convinto estimatore di Bernie Sanders, il vostro nuovo presidente non mi piace per nulla. Non mi piacciono la sua storia umana e professionale, la sua filosofia di vita, il suo modo di fare borioso e men che meno il suo programma, che segnerà una battuta d’arresto nel progresso dei diritti civili e sociali. E cioè le cose che nella mia scala di valori. antepongo a tutto. Lui è quella metà d’America nella quale non mi riconosco. Detto questo, il mio secondo romanzo, come giustamente ricordi, è ambientato su quel confine terribile tra El Paso e Ciudad Juarez dove capitai come giornalista nel lontano 1986, quando in Italia non conoscevamo nemmeno il significato delle parole “immigrazione clandestina”. Laggiù, percorrendo di notte quel confine insieme con gli agenti del Border Patrol, conobbi da vicino un dramma che nemmeno immaginavo. Lo lessi negli occhi disperati dei wetback arrestati, lo vidi nelle loro baracche di cartone sulla sponda messicana del Rio Grande, ma anche nelle facce odiose dei coyotes che si arricchivano sulla miseria altrui. E quel dramma, da allora, me lo sono portato dentro. Non ho la presunzione di avere in tasca la soluzione a un evento planetario e biblico che durerà almeno fino a quando esisteranno mondi così ricchi e così poveri divisi solo da una linea di confine o da un braccio d’acqua più o meno esteso. Da voi è un fiume, da noi il mare di Sicilia. Di mio posso solo dire che, avendo gioito come tutte le persone libere quando cadde il Muro di Berlino, non posso gioire se ora qualcuno i muri voglia costruirli altrove. Come dice Papa Francesco, c’è bisogno di costruttori di ponti e non di muri. Tornando a Trump, vorrei chiedergli chi pulirebbe i bagni, chi servirebbe le prime colazioni e chi rifarebbe i letti nei suoi alberghi se un domani non ci fossero più chicanos pagati al minimo salariale. E lo stesso discorso vale per almeno il 50% dei business in America. Perché è facile raccogliere voti con la demagogia, ma poi dalle parole bisognerebbe passare ai fatti. Fatti che, a mio avviso, non possono essere costruiti di cemento e mattoni.
Guido Mattioni: Diciamo che dentro questo romanzo ho “distillato” tutti i ricordi, le sensazioni, gli incontri, le chiacchierate casuali fatte un po’ dovunque, dai coffee shop alle stazioni di servizio, nei miei 34 anni di viaggi americani, visitando in tutto 37 Stati. Ma viaggiando per lavoro, o per diletto, ho sempre preferito percorrere le blue highways, convinto come sono che la vera America sia quella che si muove lì. Perché ci incontri ancora la gente che non ha fretta, quella disposta sempre a parlare, a raccontarti la propria vita anche se è la prima volta che ti vede. Per me, cresciuto a “pane e libri”, è anche l’America più letteraria. Proprio per questo la vecchia numero 1, quella che scende lungo la costa orientale, dal Canada alla Florida, tagliata via dalle più veloci Interstate e diventata così anch’essa “secondaria”, è sempre stata la mia preferita. Perché anch’essa ha una sua storia da raccontare, oltre a quelle di chi l’ha percorsa e la percorre da generazioni.
L’Idea: Tutti e tre i tuoi romanzi si svolgono negli USA. Una trilogia, dunque, basata anche e principalmente sulle tue esperienze di vita. Quali furono le tue esperienze in quella nazione e qual è oggi il tuo rapporto con l’America? La visiti ancora spesso? Cosa ti manca di più di lei quando sei in Italia?
Guido Mattioni: Esperienze ne ho avute mille, in America, sia per lavoro giornalistico sia durante i miei viaggi di piacere. Sarebbe impossibile elencarle tutte o anche soltanto sceglierne una. Tuttavia, pensandoci meglio, direi che quello che mi successe nel 2012, quando mi trovavo a New York con mia moglie e sulla città si abbatté l’uragano Sandy, rimane scritta nella mia memoria meglio di altre. Sia per aver visto per la prima volta al buio Manhattan, sia per la rocambolesca fuga in auto diretto ad Atlanta dove avevo un importante appuntamento di lavoro. Il nostro aereo non sarebbe partito (l’aeroporto Laguardia era sott’acqua) e io ebbi una prima fortuna di trovare un ufficio Hertz proprio accanto al mio albergo (senza più ascensore, e la nostra camera era al 15° piano!), oltre a quella di trovare l’ultima macchina disponibile, senza però Gps. Così, orientandomi prima sui grattacieli di Manhattan e chiedendo poi informazioni qua e là, ci misi tre ore soltanto per uscire dal New Jersey dato che a ogni deviazione per un albero caduto, ne trovavo poco dopo un’altra per una strada allagata. Così come allagata, attorno a Washington, sarebbe stata la I-95. E così feci uno dei miei viaggi più belli, appunto lungo le backroads, attraversando sei o sette stati: due giorni e due notti in motel godendomi un’America mozzafiato dipinta ancora dei colori autunnali. In America ci torno appena posso e almeno una volta all’anno. E quando sono in Italia, che amo, mi mancano sopra ogni cosa i suoi spazi immensi, i soli a darmi una grande sensazione di libertà.
L’Idea: Puoi rivelarci quale sarà il soggetto del romanzo al quale stai lavorando?
Guido Mattioni: Senz’altro, molto volentieri. Al momento devo dire che sto seguendo l’avvio, peraltro già travolgente, da bestseller, del manuale scritto da mia moglie oncologa, Maria Rosa Di Fazio, e dedicato al rapporto tra cibo cattivo e tumori, ma anche a quello opposto, tra cibo buono e salute. Ma a breve inizierò il mio quarto romanzo, non più ambientato in America, ma in Sicilia, isola che amo follemente in tutto: mare, paesaggio, arte, cibo e gente. Non a caso Maria Rosa ha origini siciliane. È una biondissima normanna con radici nissene. Sulla storia che narrerò, posso dire soltanto che sarà molto divertente e ricca di sapori e profumi.
L’Idea: Quale pensi sia il pregio migliore di uno scrittore contemporaneo?
Guido Mattioni: Risponderò citando una frase della mia adorata Flannery O’Connor, narratrice straordinaria c nativa di Savannah, coincidenza che conferma una volta di più la mia convinzione che nulla accada mai per caso. Flannery disse un giorno: “Noi siamo polvere, e se hai paura di impolverarti è meglio che tu rinunci a fare narrativa”. Ecco, io penso che un bravo scrittore non debba mai perdere di vista il genere umano, perché siamo soltanto noi, uomini e donne, a “scrivere” ogni giorno le storie. Noi scrittori dobbiamo soltanto riscriverle. Basta avere buoni occhi e orecchie, ma anche un buon naso perché in letteratura parlano anche gli odori. E soprattutto dobbiamo avere un grande cuore. O almeno questa è la letteratura che piace a me, dove oltre alla O’Connor i miei miti rimangono su tutti John Steinbeck, Saul Bellow e John Fante. Intendo scrittori veri, spontanei, diretti, con grandi antenne per essere sempre in contatto con l’umanità, senza gli eccessivi tecnicismi dei moderni ghostwriter o editor a fare da filtro tra la loro anima e quelle dei lettori.
L’Idea: Qual è la cosa della quale sei più orgoglioso nella tua vita?
Guido Mattioni: Potrei dire, in prima battuta, quella di essere arrivato a 64 anni senza nemici. E poi di essere stato capace di ripartire e di ricostruirmi una seconda vita dopo un dolore lacerante e improvviso come quello di aver perso la mia prima moglie dopo 23 meravigliosi anni di vita insieme. Aggiungerò anche di poter dire di essere un uomo fortunato. Due volte fortunato: perché ho potuto svolgere il lavoro che volevo fare e per aver trovato, 12 anni fa, una seconda donna straordinaria come compagna di vita.
Guido Mattioni: Ecco, dimenticavo un’altra mia fortuna: quella di avere avuto come mio primo Maestro e primo Direttore proprio Indro Montanelli, e cioè il più grande giornalista italiano, uno che non avrà mai nessuno in grado di uguagliarlo. Proprio quest’anno ricorrono i quindici anni dalla sua morte e mai come oggi, nel marasma politico e sociale italiano – ma direi anche mondiale – penso che siano in molti ad avere una incurabile nostalgia della sua penna straordinaria, della sua capacità di “graffiare”, del suo spirito libero e della sua insuperabile eleganza di scrittura. Di lui ricordo tante cose. Su tutte una: ero arrivato da qualche giorno a Milano dalla mia piccola città di provincia, Udine, per iniziare la mia carriera giornalistica. Era notte e mi trovavo in tipografia, a “chiudere” una pagina sul bancone, quando sentii una mano sulla mia spalla, mi girai e vidi il Direttore. Mi chiese: “E allora, Mattioni, come ti trovi, hai trovato casa a Milano?” Rimasi senza parole: lui era Montanelli, per me un monumento in carne ed ossa, io invece ero solo l’ultimo arrivato in un grande giornale, e pensavo che nemmeno sapesse il mio nome. Invece lui era così, dietro quella sua nomea e quello sguardo da burbero. Era un uomo, un grandissimo Uomo. Con la “U” maiuscola.
Guido Mattioni: Penso che la globalizzazione, che significa appiattimento culturale e negazione della cosa più bella, e mi riferisco alla diversità (anzi “alle” diversità) sia una catastrofe che riesco ad accostare soltanto all’inquinamento ambientale. Stiamo creando generazioni con i medesimi gusti e costumi, e per questo prive di spirito critico, che io considero la componente primaria dell’intelligenza. Non si può fare la coda di notte per poter acquistare per primi, all’indomani. l’ultimo modello di uno smartphone. È follia, è demenza pura, perché senza spirito critico diventiamo tutti meno liberi, con l’aggravante che non ce ne accorgiamo nemmeno.
Guido Mattioni: Premetto che siamo tutti cittadini di un mondo unico, e che quindi per non ritrovarci isolati e “analfabeti” sia necessario conoscere, leggere e parlare almeno un’altra lingua. Ma penso che le radici non possano essere cancellate. Il problema mi sembra piuttosto il “come”. Trovo infatti una forzatura che uso e studio dei dialetti debbano diventare materie scolastiche obbligatorie, e penso che questo invece possa arricchire le persone soltanto quando diventa una libera scelta. Così come lo è anche il riscoprire i gusti, i sapori e i profumi delle nostre tradizioni gastronomiche. McDonald’s per spiegarmi, può essere un “servizio sociale” per dare da mangiare con poca spesa a chi non si può permettere nulla di più, ma detto questo, appunto, viva le differenze.
L’Idea: Potresti commentare a proposito della carenza di assistenza da parte del governo e delle località, allo spettacolo di cultura (vedi Teatro, Opera e Concerti di Musica Classica, ad esempio) che ha portato ad una crisi quasi irreversibile in Italia, con forzato esodo di professionisti e calo di turisti?
Guido Mattioni: Abbiamo avuto un ministro dell’Economia, pochi anni fa, che dichiarò che “con la Cultura non si mangia”. Lui misurava il mondo unicamente in termini di banche, società finanziarie e prodotto interno lordo. Ma il prodotto interno lordo, come disse in un indimenticabile discorso Robert Kennedy negli anni Sessanta, non può misurare tutto. Se posso esprimere il mio parere, da cittadino italiano, dirò che quel ministro era un idiota. Per fortuna noi italiani, con tutti i nostri difetti, sappiamo essere un po’ meglio dei politici. E il nostro Paese, soprattutto grazie a tanti privati, continua a creare tante cose di pregio e destinate a rimanere. Basta girare l’Italia, soprattutto in provincia, per renderci conto che siamo ancora un Paese unico e irripetibile.