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Un ambiente… oscuro

di Ester Cecere

Ester Cecere, ricercatrice dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, illustra le caratteristiche degli abissi marini, un luogo un cui la luce solare non penetra, la temperatura è prossima a 0ºC e la pressione idrostatica è molto forte. E di alcuni animali che qui vivono, contraddistinti da un aspetto inquietante, con occhi telescopici, bocche molto grandi, denti aguzzi e dotati di bioluminescenza

Se dovessero chiederci se è più facile andare nello spazio o raggiungere le profondità marine, sicuramente risponderemmo: la prima che hai detto, in effetti il primo oggetto artificiale che raggiunse lo spazio, un missile balistico usato dalla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, fu lanciato esterno compiendo un volo suborbitale e raggiungendo la quota di 174,6 km il 20 giugno 1944. Da allora e fino ai giorni nostri, le missioni nello spazio si sono succedute al ritmo di più di una all’anno. Di gran lunga minore è però il numero delle esplorazioni degli abissi marini, lo spazio compreso fra i 2.000 e i 6.000 m di profondità. Un ambiente decisamente inospitale. La luce solare non vi penetra, anche quando l’acqua marina è limpida, la luce visibile penetra soltanto nella zona superficiale e dalla profondità di 100 metri è assorbita quasi tutta. Solo in alcune zone dei mari tropicali, in condizioni di acqua estremamente trasparente, lo 0,01% giunge fino a 200 metri. Pertanto, negli abissi marini non sono presenti vegetali in grado di sostenere la fotosintesi clorofilliana, che necessita di luce per la produzione di energia e sostanza organica.

L’ecosistema del mare profondo è dunque completamente dipendente da rifiuti e sostanze organiche che scendono dall’alto, detti “neve marina”.  La temperatura è prossima a 0ºC. La pressione idrostatica è fortissima: aumenta di 1 atmosfera ogni 10 metri di profondità, a cui bisogna sommare 1 atmosfera data dall’aria al livello del mare. La zona abissale è poi caratterizzata dall’assenza del moto ondoso, dalla presenza di correnti molto deboli e, quindi, dalla uniformità delle condizioni ambientali.

Viene spontaneo chiedersi quali esseri possano vivere in simili condizioni. Cominciamo col dire che sono creature strane, di aspetto inquietante, spesso mostruoso e che specie completamente diverse condividono le stesse peculiarità: occhi telescopici rivolti verso l’alto con cui è possibile vedere le prede stagliarsi contro il debole chiarore proveniente dagli strati superficiali; una bocca molto grande e dotata di denti aguzzi, oppure bocca e stomaco estensibili per ingoiare prede persino più grosse degli stessi predatori; sono inoltre caratterizzate dalla bioluminescenza, un fenomeno grazie al quale organismi viventi emettono luce attraverso particolari reazioni chimiche, nel corso delle quali l’energia chimica viene convertita in energia luminosa, che avvengono in organi detti fotofori. La bioluminescenza serve per la predazione, la difesa e la comunicazione.

Nel primo caso, in diversi pesci ossei raggruppati sotto il nome di rane pescatrici, il primo raggio della pinna dorsale, detto “illicio”, è trasformato in un’esca luminosa per attirare molluschi, crostacei e pesci di piccole dimensioni. Nella “linofrine” (Linophryne arborifera Regan, 1925), una rana pescatrice che vive fino a mille metri di profondità, il dimorfismo sessuale è molto evidente: la femmina raggiunge una lunghezza massima di circa 8 cm, mentre il maschio ne misura solo 1,5; la prima è facilmente riconoscibile grazie alla presenza dell’illicio e di un barbiglio ventrale, che ricorda un arbusto (da cui il nome scientifico “arborifera”), anch’esso bioluminescente. Questo micidiale predatore non solo usa queste “esche” luminose per attrarre le prede, ma riesce anche a rendersi invisibile, in quanto la sua pelle assorbe la luce. Così la malcapitata verrà attratta dalla luce e finirà nella bocca spalancata del predatore.

Inoltre, questi organi bioluminescenti permettono al maschio di individuare la femmina in un ambiente privo di luce e di stabilire un contatto permanente con essa, utilizzando dei dentelli presenti nella bocca. Dal momento della fusione del maschio alla femmina, i due non si separeranno più, il maschio diventa un vero e proprio parassita della femmina, unendosi a essa anche con il suo sistema circolatorio. Molti suoi organi, come gli occhi e la maggior parte dei visceri, degenerano in seguito alla fusione, mentre i testicoli aumentano in volume: il maschio diventa, quindi, un organo copulatore, pur essendo in grado di respirare autonomamente.

Nel caso della difesa, i fotofori servono per la contro-illuminazione, cioè per non essere visti, per nascondere la propria silhouette emettendo luce e accecando il nemico. Quando servono per la comunicazione, la disposizione dei fotofori permette il raggruppamento tra individui della stessa specie; nella ricerca del partner al momento della riproduzione, la disposizione dei fotofori è diversa in individui di sesso diverso.

Rana pescatrice

Intorno ai mille metri di profondità, vive il pesce osseo più lungo al mondo, detto “re delle aringhe o regaleco o pesce remo” (Regalecus glesne Ascanius, 1772), mediamente di tre metri, mentre la massima lunghezza riportata in letteratura è di otto metri. Il peso massimo registrato è di oltre 270 kg. Ha un corpo allungato e nastriforme, piuttosto fragile, di colore argento. Si caratterizza per una pinna dorsale che percorre tutto il corpo, di colore rosso vivo, per la presenza di una cresta di “raggi” sulla testa e per due lunghe pinne pelviche simili a remi (da cui il nome inglese di oarfish, cioè “pesce remo”).

La sua bocca è protrusa ma priva di denti. Infatti, il pesce remo si nutre principalmente di krill (crostacei di piccola dimensione che è possibile trovare in tutti gli oceani, in particolare nelle acque polari), mantenendo aperte le fauci e filtrando l’acqua con l’aiuto di un filtro rigido posto al livello delle branchie. Gli esemplari adulti si riproducono anche nel Mar Mediterraneo a livello dello Stretto di Messina.

Il regaleco è raffigurato nei mosaici della Basilica di Aquileia, in Friuli-Venezia Giulia, in relazione alla leggenda del profeta Giona, secondo la quale l’uomo fu gettato in mare e un “grande pesce” lo inghiottì. Dal ventre del pesce, dove rimase tre giorni e tre notti, Giona rivolse a Dio un’intensa preghiera, allora, su comando divino, il pesce vomitò Giona sulla spiaggia. Il regaleco era noto nella mitologia greca e romana col nome di pistrice.

Un altro aspetto che caratterizza alcune specie è il “gigantismo abissale”, espressione coniata per descrivere la tendenza di molte specie che popolano i fondali più profondi a raggiungere una taglia molto maggiore rispetto a specie dello stesso genere che vivono in acque meno profonde.

L’esempio più noto è il calamaro gigante, lungo fino a 13 m, superato dal calamaro colossale (che però non è suo “parente stretto”), lungo anche più di 14 metri. Il calamaro colossale necessita di occhi enormi per individuare le prede nell’oscurità che possono misurare fino a 27 cm di diametro, i più grandi del regno animale. A differenza del calamaro gigante, che ha occhi situati sui fianchi ed è quindi dotato di un ampio campo visivo, il calamaro colossale li ha frontali; pertanto, essi consentono un campo di visione più ristretto, ma con una visione binoculare.

L’esempio più sorprendente di gigantismo abissale è però il crostaceo isopode (Bathynomus giganteus, A. Milne-Edwards, 1879), che ricorda nell’aspetto i comuni “porcellini di terra” e, come questi, si appallottola raggiungendo la taglia di 50 cm e 2 kg di peso.

Non è noto se la tendenza all’aumento di dimensioni sia un adattamento alla forte pressione delle alte profondità o sia dovuta ad altre ragioni. David Attenborough, famoso divulgatore e naturalista britannico nella sua serie televisiva “Blue Planet”, ipotizzò che le grandi dimensioni di un animale abissale comporterebbero una minore dispersione di calore e necessità di attività costante, caratteristica dei piccoli organismi.

Un altro caso emblematico di gigantismo abissale è il “verme tubo gigante”. Questo anellide polichete, che arriva a misurare anche un metro di lunghezza, vive presso le sorgenti termali nell’Oceano Pacifico e presso la dorsale sottomarina delle Galapagos, a partire da oltre 1.500 metri di profondità. Le sorgenti calde sul fondo dell’oceano furono scoperte per la prima volta 40 anni fa e in quell’occasione vennero osservati questi vermi giganti, che traggono l’energia necessaria per vivere da batteri in grado di formare materia organica in completa assenza di luce solare. La “neve marina” perde gran parte del suo valore nutrizionale quando raggiunge il fondo del mare e, quindi, non fornisce energia sufficiente a sostenere dense popolazioni di grandi organismi. Pertanto, gli abitanti delle sorgenti calde che vivono in acqua a temperatura di 42°C, ricca di solfuro di idrogeno e altri composti inorganici, si avvalgono di tali batteri che generano energia con la chemiosintesi, cioè la trasformazione chimica (chemiosintesi microbica) di quei composti. La chemiosintesi microbica ci spinge a riconsiderare l’origine della vita sul nostro Pianeta ed a ipotizzarne la possibile presenza altrove nell’universo, materia questa degli astrobiologi.

La fauna abissale è a tutt’oggi poco nota e oggetto di pochissimi articoli scientifici a causa soprattutto delle difficoltà di campionamento: non è facile raggiungere certe profondità, anche con sottomarini radiocomandati dalle navi, data l’enorme pressione idrostatica. Fino ora la maggior parte delle descrizioni si sono basate su individui spiaggiatisi che talvolta, essendo stati sottoposti a decompressione, perdono il loro aspetto originario, trasformandosi in una massa informe, come nel caso del cosiddetto “pesce blob” (Psychrolutes marcidus, McCulloch, 1926). [Almanacco della Scienza N.7, 2023]

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