Dalla lettura dal titolo “L’ossessione di avere ragione”, tratta da Il Tascabile, giornale on line, l’autore Giorgio Fontana, scrittore, sceneggiatore, giornalista, espone il suo punto di vista sui pericoli e le possibili soluzioni attorno alle discussioni che nascono nei social.
Vorrei perciò riprendere il pensiero esposto da Fontana, rielaborandolo e inserendo riflessioni personali.
Penso che argomentare, direttamente o attraverso dispositivi informatici molto spesso divenga occasione per non ascoltare veramente le ragioni dell’altro. Quando parliamo, quando affrontiamo un discorso, spesso è come se si impossessi di noi il demone dell’onniscienza e dell’onnipotenza. Diveniamo novelli sofisti.
Usiamo cioè una tecnica di discorso finalizzata a fare apparire a chi ascolta la nostra come l’unica verità. Non si tratta di usare una retorica sofistica, finalizzata al raggiungimento dell’utile, inteso come nuova virtù – come diceva Protagora, vissuto nel V secolo a. C., un nuovo concetto di virtù, fondato sull’utile e non sul bene). (“Il sofista è appunto colui che possiede e insegna la virtù dell’accortezza, cioè del saper scegliere ciò che è utile per sé e per la pólis in dati momenti”). Si tratta di abusare della parola per desiderio di affermazione, rinforzando una posizione – la propria – anche pur ritenendola giusta.
Se il dibattito avviene sui social, tutto deve esistere nello spazio di poche ore.
L’arena diviene la pagina virtuale attraversata da parole scritte a suon di colpi.
Il fine è dunque avere la meglio, calpestare l’avversario, dove il dire è agito con violenza, dove la retorica ha per fine la vittoria su chi viene percepito come nemico.
Sui social importante è attaccare l’altro, il “fittizio”, pronunciando notizie del tutto spesso non verificate, per raggiungere con la veemenza verbale un effetto scenico potente. Lo scopo del dire sarà quello di notificare informazioni prive di fondamento, senza preoccuparsi delle conseguenze; l’importante sarà avere migliaia di “Like” sulla nostra pagina social. Le smentite non conteranno se il numero di chi le approva saranno inferiori rispetto alle affermazioni pronunciate.
Sentirci protagonisti nella rete di dibattiti, opinioni, di qualsiasi entità esse siano, è come navigare in un oceano di emozioni forti; noi siamo i timonieri, felici di cavalcare “l’onda travolgente” del discorso. Solo agendo così ci sentiamo vivi, riusciamo ad udire il suono della nostra presenza nei consensi, nei silenzi, nelle parole degli oppositori a cui non risparmiamo il contrattacco.
È un modo, questo, di procedere nei dibattiti che si va consolidando negli anni; dal privato cittadino al gruppo sociale o politico si fa uso della rete per avere proseliti sia pure perseguendo fini diversi.
Esercitare un potere per sentirci meglio, per non volere abbandonare un’idea su cui abbiamo costruito un’immagine di noi e del mondo, divenuto troppo stratificato, appare oggi più che mai la via da perseguire. Tentare di capire l’universo complesso in cui siamo immersi, metterebbe a rischio la nostra tridimensionalità: corpo, psiche, mente. Inoltre, affidarci all’argomentazione richiede umiltà e persino “una certa fatica”.
Molto più facile costringere l’altro senza lasciare spazio a un dibattito.
“Vincere le resistenze dell’ascoltatore, trasformando la persuasione in costrizione, in violenza… per ottenere la credibilità e, attraverso essa, il successo». Questa era secondo Aristotele, vissuto nel IV secolo a.C., la finalità dei sofisti a sostegno della propria argomentazione, perché per il sofista, dunque, non è importante ricercare il vero e opporlo al falso con onestà di pensiero, quanto la vittoria sull’avversario.
Dovere rivedere le proprie posizioni concettuali non è semplice, mettere in discussione le proprie idee, orientarle verso possibili vie di ragionamento, e perché no, contrarie a quelle personali, richiede un esercizio di paziente riconversione di sé, un affinamento della virtù della tolleranza, intesa come accettazione e riconoscimento dell’altro visto come prezioso interlocutore che ci “interroga” sul rapporto io/tu, sulla considerazione di un io all’interno di un noi relazionale.
E se dovessimo invece esercitare la virtù della riflessione del ragionamento? Quella di un sincero “mea culpa”, noncuranti del tempo stretto messo a disposizione dal palcoscenico della “community”?.
Bisognerebbe lavorassimo su di noi, ripensando ai meccanismi linguistici comunicativi, alla luce di un senso etico, di un atto di responsabilità, di una capacità di attivare meccanismi di consapevolezza all’interno della vita collettiva. Il che vuole dire proporre questioni di dibattito permeate di senso, che interroghino, che indaghino con onestà intellettuale, che tengano presente il punto di vista dell’altro, credendo che insieme ci si arricchisce e si cresce. Difendere un’opinione se sono convinta della bontà della mia opinione, è giusto ma non è indispensabile giungere a un esito unanime pacificato su un’idea. Un dibattito può rimanere incerto, non condiviso, ma sarà migliorato attraverso il contrasto di parere.
Infine, penso che la verità piena non sia appannaggio di nessuno, che si possa imparare anche dalle ragioni e dagli errori degli altri.
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