di Marina Agostinacchio
1a parte: Poeti arcaici, Aedi, Rapsodi, Esiodo, Pindaro
Secondo la poesia antica, il poeta occupava un posto particolare nell’ambito della società; esso, infatti, si rivestiva di sacro in quanto tramite tra dio e l’uomo.
Il poeta, nell’immagine dell’aedo, diviene indovino che dice ciò che gli occhi non possono vedere, perché ciò è nascosto nel tempo passato. Poeta e indovino sono dunque figure parallele nella Grecia arcaica. Entrambi ciechi, poeta e indovino, con la loro arte riescono a far sì che il presente non obnubili il mondo sovraumano, senza tempo, del dio. E’ per questo che i signori nobili che ospitano gli aedi tengono questi in grande considerazione. Il poeta con la sua arte non solo è urna che raccoglie la memoria collettiva- genos – ma con la sua parola è piacere che rapisce chi lo ascolta.
Nel tempo degli Aedi….
Demodoco (aedo dei Feaci) nell’Odissea.
L’attività svolta da aedi e cantori presso le corti di nobili aristocratici viene descritta per la prima volta da Omero, nell’Odissea. Così nel passo: “Venne l’araldo guidando il valente cantore./ Molto la Musa lo amò e gli diede il bene ed il male:/ gli tolse gli occhi ma il dolce canto gli diede”, possiamo intuire come la cecità sia metafora di possibilità per un oltre. Siamo presso i Feaci, alla reggia di Alcinoo, davanti al banchetto allestito per l’ospite Odisseo; l’araldo guida l’aedo cieco (come venivano rappresentati tutti i cantori e i poeti profeti dell’antica Grecia) di nome Demodoco. Le Muse gli donano una seconda vista, segno di una sapienza superiore. Estraniato da sé, preda dell’ispirazione divina, accompagnato dal suono della cetra, l’aedo inizia il suo canto davanti ai cortigiani e ad Odisseo: “Poi quando ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo,/ la Musa indusse l’aedo a cantare le glorie degli uomini,/ da un tema la cui fama raggiungeva il vasto cielo,/ la lite di Odisseo e del Pelide Achille,/…”(canto VIII, vv. 62 sgg).
Esiodo
Con Esiodo (metà VIII secolo a.C. – VII secolo a.C) muta la visione del poeta mediatore diretto della verità superiore. Le Muse gli ricordano, prima di investirlo tale, come sia facile, per i poeti, dire molte cose false simili al vero. Verità, falsità, verosimiglianza: il poeta incanta, camuffa il falso di apparenze verosimili. Quindi l’aedo non rivela solo il segreto del dio, il non accessibile, attraverso il suo canto, ma si carica anche di connotazioni altre, facendo uso di parole che incantano chi ascolta. In questo caso il canto del poeta diviene infrazione del codice morale perché per svelare il dio, il canto del poeta passa per qualcosa che assomigli al vero ma che non è il vero nella sua assolutezza. Il verosimile è vicinanza al vero per difetto.
Se vogliamo reperire l’inizio della menzogna in poesia dobbiamo partire proprio da Esiodo e dal proemio della Teogonia, dove il poeta greco fa dire alle Muse che gli si rivolgono questa frase:
“« (…) noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero,
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare»”
(Esiodo, Teogonia, 1984, BUR)
E Rea, congiunta a Crono, die’ a luce bellissimi figli,
Istia, Demètra, ed Era, la Diva dall’ aureo calzare,
Ade ch’à sotto la terra la casa, dall’ animo forte,
cuore spietato, ed Enosigèo che profondo rimbomba,
e Giove, saggia mente, degli uomini padre e dei Numi,
sotto il cui tuono tutta si scuote l’ampissima terra.
Ma l’inghiottiva, come ciascuno dall’utero sacro
su le ginocchia della sua madre cadesse, il gran Crono,
che questo in mente aveva, che niun dei mirabili Uràni
fra gl’Immortali avesse l’onore del regno: ché aveva
saputo dalla Terra, da Urano fui gente di stelle,
ch’era per lui destino soccombere al proprio figliuolo.
Per questo, ad occhi chiusi non stava: vegliava; ed i figli
suoi divorava. E Rea si strugge a d’amarissima doglia.
Ma quando essa alla luce già stava per dar Giove, padre
degli uomini e dei Numi, rivolse la prece ai diletti
suoi genitori, a Urano coperto di stelle, ed a Terra,
perché d’accordo il modo trovassero ch’ella il suo parto
nascondere potesse, far paghe l’Erinni del padre
e dei suoi figli, inghiottiti da Crono possente, astuto.
Esiodo, Teogonia 453 – 473
(Esiodo nella Teogonia tradotta da Romagnoli)
Come possiamo vedere, Gea e Urano, i Titani, loro figli, il seguito della storia, sono presentati attraverso narrazioni non aderenti al vero, una storia intessuta di simbolismi su cui si sono formati gli uomini antichi , una storia in veste di poesia, nei modi che solo la poesia sa fare, raggiungendo la bellezza col suo linguaggio alto, fortemente allegorico. La poesia, quindi come via attraverso cui presentare il vero, “distinguendolo raffinatamente dalla menzogna”. Quest’ultima però si presenta di una parte formale con cui annunciare questo vero; è necessario presentare il vero, con una forma che lo evidenzi al meglio per rendere palese quanto più possibile il concetto di vero. La menzogna (la figura retorica usata ed abusata, portata spesso all’estremo) pare essere un pretesto, argomento ornamentale, a suffragio di una comunicazione che miri a dare un messaggio forte. Il poeta ha due compiti importanti: rendere viva ed eterna la memoria dei tempi eroici e tramandare un codice di valori sociali. Importante è la funzione perciò della memoria in cui gli uomini ritrovano passato e significato del loro esistere; senza memoria, avrebbero dietro sé l’ignoto. La gloria delle antiche gesta dei sovrani e delle imprese trascendenti degli dei vive attraverso la memoria. Il poeta muove l’animo umano e indica la via giusta. Chi ascolta si autoriconosce, trova conferma delle regole che organizzano la vita, trova ragione della propria identità. Il compito del poeta è importante. Deve agire con un linguaggio metaforico soave, amabile, dolce per suscitare paura, pianto, commozione, dolcezza.
La visione di Pindaro (518 a.C. circa – Argo, 438 a.C. circa) della poesia e del poeta avviene attraverso il recupero nella metafora il requisito essenziale dell’aedo omerico, identificato nell’indovino e pertanto il cantore non è più sottoposto al signore, suo pubblico. Il poeta, interprete (hermaneus), indovino (mantis), profeta (prophatas) canta le imprese del signore, assunto al rango di eroe. Le gesta chiedono di essere consacrate e perciò eternate nel ricordo. Rivelando l’ineffabile, attraverso l’ispirazione e l’investitura sacra della Musa, il poeta può finalmente porsi sullo stesso piano del signore, assumendo il ruolo di celebratore e consacratore delle imprese di costui. Non più svelatore, interprete solo di un passato scomparso, luogo in cui il poeta accede al dio, si riconosce, il poeta, nel signore/committente della celebrazione delle opere di quest’ultimo. Con la metafora il poeta diventa pertanto non solo l’interprete del dio: “Oracoleggia, Musa, io profetizzerò”; il soffio della Musa ispira il poeta a celebrare la gloria degli atti eroici del presente e a riprendersi lo status di consacrato, colui che può cantare anche l’attuale in forza da un lato della mediazione delle divine Muse, dall’altro della metafora che presenta il canto in forma di linguaggio che rinvia ad un altrove, innalza la parola a uno status divino. Ma di quale attuale si tratta? A chi questo attuale rimanda? Pindaro riconosce il presente cantato nei tiranni siciliani, alla cui corte il poeta diviene sacerdote e non tanto indovino. Gli espedienti tecnici del comporre e quelli creativi appaiono sotto la veste sacerdotale e la funzione sacra sacerdotale, nonché sotto la diversità della sua natura. Elogio del sovrano/auto elogio del poeta/superiorità della poesia su ogni altra pratica perché la poesia consacra chi oggi regna; il signore deve consegnare, come avviene per gli eroi e i sovrani del passato, la propria immagine di gloriosa potenza. il poeta è allora “maestro di verità e di moralità”.
Alla prossima!!!