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Poesia e poeti, 4a parte. Platone: perché la poesia non è pratica della ragione

Nel percorso in oggetto, si farà riferimento a tre scritti del filosofo greco: Ione, Fedro, la Repubblica

Archiloco

Lo Ione e la poesia come incantatrice che allontana dal vero

“Questa caratteristica della poesia non esalta per nulla le virtù della ragione dell’uomo; essa deve essere abbandonata come deposito sociale della cultura, perché, essendo ispirata dal dio non comporta nessuna vera scienza umana, nessun vero insegnamento. Socrate stesso rileva che la rapsodia non ha alcuna competenza specifica, ma che anzi, proprio come il dio Proteo si tramuti «in mille forme» e che il suo ambito specifico risulti quindi inafferrabile”.

Asclepio

Trama: Socrate chiede al rapsodo Ione, di ritorno da Epidauro dove in occasione delle le feste in onore di Asclepio ha vinto dei primi premi grazie alla sua bravura ed abilità oratoria. Si sa che gli Epidauri dedicavano al dio anche una gara di rapsodi “ed anche gare in ogni altra arte riguardante le Muse”. Socrate così pregò Ione di dare prova della sua bravura, magnificando con il suo dire i versi di Omero, Esiodo ed Archiloco. Ione risponde che non lo può fare, perché egli è esperto solo di Omero. Socrate allora fa in modo che il rapsodo confessi che se fosse competente di poesia, saprebbe disquisire di Esiodo e di Omero, di Archiloco e di Saffo, “allo stesso modo in cui un esperto di statue sarebbe esperto di ogni genere di statue e non solo di quelle di un determinato autore. Ione ne è persuaso: tuttavia, egli afferma di essere come addormentato quando sente parlare di altri poeti, mentre l’animo gli si risveglia quando sente parlare di Omero”. Socrate chiede a Ione di scegliere tra due opzioni. La prima: la rapsodia è arte? Allora non volere rispondere alle domande di Socrate è ingiusto e scorretto, perché Ione non vuole dirgli perché sia maggiormente competente in un ambito di poesia e non in altri. La seconda: La rapsodia non è un’arte ma un’ispirazione divina? Affermando ciò allora Ione sarà non solo un uomo giusto e corretto, ma un uomo divino. Ione decide per la seconda possibilità, e Socrate lo saluta: che canti la gloria di Omero con incantevoli parole, ma cosciente che un tale dono risponde a un’ispirazione divina e non ad un dire personale frutto di conoscenza.

Nell’opera giovanile di Platone, Lo Ione, il filosofo fa dire in forma di dialogo a Socrate che “l’attività del rapsodo e la stessa poesia non nascono dalla conoscenza, ma sono il risultato di un’ispirazione divina”. Socrate sostiene che nel poeta il pensiero non esiste e neppure nel rapsodo, per la presenza di un ‘potere divino’ (theia dunamis). Attraverso la tékhne – “arte” – il poeta e/o il rapsodo, al fine di suscitare un effetto particolare nel pubblico che ascolta, mediante la parola, devono essere obbligatoriamente ispirati da un ‘potere divino’; ciò pertanto ciò esclude la presenza di un’attività umana, pensante autonoma. “Il poeta e il suo rapsodo non sanno di cosa stanno parlando perché operano soltanto come portavoce degli dei: pieni d’ispirazione mancano di intelligenza -nous-” (Francisco Gonzalez). La poesia dunque è mania, ispirazione divina. Secondo Socrate nel suo farsi la poesia ha per fonte ispiratrice la Musa; questa energia che penetra il poeta, lo estrania da sé, a tal punto da mandarlo fuori di senno.

Esiodo

Quando compone, il poeta è “ministro della dea stessa”. Inoltre, così come accade per la calamita che stabilisce una catena magnetica tra i suoi anelli, così accade in poesia. Infatti lo zampillo creativo del poeta passa dalla Musa al poeta e da questi ancora al recitatore e all’ascoltatore. Si tratta insomma di una metafora che vorrebbe rappresentare quanto legga le opere testuali e il loro approdo nell’ascoltatore. Ione è convinto che quanto dica Socrate sia giusto: egli stesso si sente in preda ad un delirio quando recita Omero, e vede che è capace di suscitare le stesse passioni in chi lo ascolta, il quale si commuove, agitandosi pur senza un motivo ben preciso.

Epidauro

Fedro

“Fedro (in greco antico: Φαῖδρος, Phâidros), scritto da Platone probabilmente nel 370 a.C., è un dialogo tra due personaggi, Socrate e Fedro. Il dialogo è composto da tre discorsi sul tema dell’amore che servono come metafora per la discussione del corretto uso della retorica. Esse comprendono discussioni sull’anima, la follia, l’ispirazione divina e l’arte”. La follia nel poeta è ispirata dal dio, quindi tenuta in grande considerazione; essa risulta assai più importante rispetto alle competenze tecniche. Follia e ispirazione del poeta non vivono in opposizione duale con la dimensione razionale del poeta. Del resto anche il filosofo è presentato come folle e ispirato.

“V’è una terza forma di esaltazione e delirio, di cui sono autrici le Muse. Questa, quando occupa un’anima tenera e pura, la sollecita e la rapisce nei canti e in ogni altra forma di poesia, e celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri. Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola tecnica lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio” (Platone, Fedro, passo 245a1-8; trad. Giannantoni)

Il passo citato è una tra le più conosciute dichiarazioni del pensiero di Platone sulla poesia e sui poeti; questi, investiti di sacralità in quanto mediatori tra l’intellegibile divino e l’uomo, aprono alla rivelazione di uno spazio antico in cui uomini e dio si conoscevano. Ma l’arte del poeta lo allontana dalle pratiche della consapevolezza. La forza della poesia ha per nutrimento la divinità, si diffonde attraverso il poeta o i rapsodi, è diretta a un pubblico che si lascia rapire dalla parola magica. Il poeta è come un magnete, alato e leggero, sacro, ispirato dal dio nel suo dire e proprio per questo condizione necessaria è uscire da sé, senza più avere controllo di sé. Poesia e intelletto vivono in opposizione, essa inganna, seduce, porta piacere in chi ascolta.

Quindi, nell’ispirazione poetica, l’hermeneus (l’interprete del poeta, cioè il rapsodo,) si identifica in un medium passivo, nel senso che pensa o agisce subendo l’influenza del poeta il quale, a sua volta, presenta questa ispirazione come incompatibile con il possesso di una qualsivoglia techne propria, dominato com’è dal potere della divinità. Poeta e rapsodo divengono hermeneon hermenes, ermeneuti di ermeneuti

“Se entrambi i poeti e i rapsodi possono ora essere descritti come nient’altro che hermenes, questo dipende dal fatto che Socrate sta ora negando loro il possesso di un qualunque tipo di competenza tecnica. Mera ‘ermeneutica’ è la mera trasmissione, senza conoscenza, di un messaggio e di un potere per cui neppure il poeta è responsabile. Socrate di conseguenza cerca di mostrare che Ione in quando mero hermeneus non può possedere una techne, perché il pensiero da lui veicolato, se mai ve ne è uno, non è né suo né del poeta in nome del quale parla… Nell’ermeneutica dei poeti si è mossi dalle cose al di là del proprio controllo e al di là della propria esperienza”.

Omero, Esiodo e i tragici (ma prima di tutto Omero) danno – secondo Socrate, portavoce e alter-ego di Platone – un’immagine inadeguata, anzi scorretta, della divinità: presentano cioè gli dei come cause di mali, autori di malvagità, ma anche propensi alla metamorfosi e alla menzogna. Socrate fissa, dunque, le leggi a cui, invece, i poeti si dovrebbero ispirare. La prima è che la divinità, essendo buona, non può essere causa di male, ma solo di bene. Per il male occorrerà trovare “altra causa”. La seconda legge vuole che la divinità, essendo perfetta, non possa mentire né trasformarsi in ciò che, comunque, uomo o animale, sarebbe meno perfetto di lei.

Circa il discorso che Platone fa nella sua opera la Repubblica, (Degli dei, della morte e degli eroi), “Bisogna ricordare prima di tutto – quando si parla della condanna della poesia – che tale condanna non nasce all’interno di un discorso di estetica ma all’interno di un discorso di politica. Socrate e gli altri stanno discutendo della costruzione di uno Stato ideale, lo Stato giusto per eccellenza, nel quale i produttori sono dediti al lavoro, i filosofi sono al governo e i guerrieri – “vista la perfetta corrispondenza fra la polis e l’anima, corrispondono all’anima ‘passionale’ (dal II libro di Repubblica di Platone) “-  difendono la polis con fermezza. Ma anche il singolo uomo in tale contesto trova un suo Imprescindibile spazio, una sua funzione sociale, in quanto dotato di una dimensione morale. Omero, Esiodo e i tragici (ma prima di tutto Omero), secondo Socrate, parola e alter-ego di Platone, offrono degli dei un’immagine negativa e inadeguata, essi vengono visti cioè come principio di mali, ideatori di malvagità, inclini alla metamorfosi e alla menzogna. Socrate stabilisce allora le leggi a cui i poeti si dovrebbero ispirare. “La prima è che la divinità, essendo buona, non può essere causa di male, ma solo di bene. Per il male occorrerà trovare ‘altra causa’. La seconda legge vuole che la divinità, essendo perfetta, non possa mentire né trasformarsi in ciò che, comunque, uomo o animale, sarebbe meno perfetto di lei”. Nel libro III della Repubblica, Platone poi sostiene che i poeti danno una rappresentazione orribile della morte e dell’aldilà.

“Tutto ciò non si addice alla parte passionale dell’anima né ai guardiani dello Stato, che devono affrontare il rischio di morte con coraggio e serenità. Del resto, anche la rappresentazione degli eroi è diseducativa. L’eroe non dovrebbe essere rappresentato preda dell’ira o accecato dalla passione o vinto dal pianto o colto da riso smodato (il riferimento è ad Achille, l’eroe dell’Iliade, e alle sue note vicende): l’eroe dovrebbe essere saggio, coraggioso e temperante”. Si evince da tutto ciò che la critica di Platone non è tanto rivolta   alla poesia quanto ai poeti e all’impiego “immorale e diseducativo”, che hanno fatto della loro arte e capacità creativa.

È in questo contesto che Platone, il quale altrove – ad esempio nel Fedro – aveva riconosciuto nella poesia uno dei “doni del delirio”, esprime il suo giudizio negativo. “Degli dei, della morte e degli eroi.”

La Repubblica e L’inganno dei poeti

Socrate

Trama: La Repubblica (in greco antico: Πολιτεία, Politéia) opera filosofica anch’essa in forma di dialogo, scritta approssimativamente tra il 380 e il 370 a.C. da Platone Il titolo originale dell’opera è la parola greca πολιτεία. La Repubblica, che è la traduzione tradizionale del titolo, derivata dal latino, e in particolare da Cicerone non è rispondente alla sua traduzione più precisa La Costituzione. L’opera è composta da 10 libri: il primo tratta il tema della giustizia e funge da introduzione per i due libri successivi, in cui Platone espone la sua teoria di “Stato ideale”. Quarto e quinto libro si occupano del rapporto tra cose e idee, tra mondo sensibile e sovrasensibile (Iperuranio). Sesto e settimo libro descrivono la teoria della conoscenza, ottavo e nono dello Stato e della famiglia ed infine il decimo dell’immortalità dell’anima con il Mito di Er. L’opera ruota intorno al tema della giustizia. La Repubblica pone il rapporto tra universale e particolare. In essa Socrate rivela ilpensierodi Platone nel momento storico vissuto dopo la guerra del Peloponneso: Crizia e il governo dei Trenta Tiranni, la caduta del governo oligarchico, la restaurazione della democrazia ateniese, e nel 399 a. C. il processo e la condanna a morte del maestro Socrate.

Circa l’inganno dei poeti

L’inganno dei poeti è da attribuire alla loro parole che provoca, suscita, incute emozioni e sentimenti diversi  e tutti in forma di esaltazione. Parola che inganna inoltre anche la parte riflessiva dell’anima poiché genera alterate rappresentazioni della realtà. “Ammettiamo dunque che, a cominciare da Omero, tutti i poeti sono imitatori di copie della virtù e altre cose di cui trattano e che non attingono la verità? ma, come or ora dicevamo, il pittore, pur senza intendersi (X,601) [a] di persona della fabbricazione delle scarpe, farà un calzolaio che sembrerà un vero calzolaio a chi non se ne intende e giudica invece in base ai colori e alle figure? — Senza dubbio. – Così, credo, diremo che anche il poeta applica certi colori alle singole arti mediante i nomi e le frasi, senza intendersi d’altro che dell’imitazione. E così altre persone simili a lui, che giudicano in base alle parole[b], credono che, quando uno parla o della fabbricazione delle scarpe o del comando di truppe o di qualunque altro argomento rispettando il metro, il ritmo e l’armonia parli molto bene. Tanto è grande il fascino che esercitano naturalmente questi mezzi espressivi!… : l’imitatore conosce solo un poco le cose che imita, e l’imitazione è uno scherzo e non una cosa seria; e coloro che si dedicano alla poesia tragica, o in versi epici, sono tutti imitatori nel più alto grado possibile? -Senza dubbio.” Quindi la poesia come forma d’arte che imita l’apparenza e non scopre la verità sottostante, determina in chi l’ascolta il desiderio del piacevole e allontana dalla ricerca del vero. Filosofia e poesia vivono, pertanto, in un dualismo oppositivo che non si può sanare. Il poeta appare come un trasgressore delle regole sociali, costitutive della società e per il filosofo, campione della ragione, appare come elemento dissacratore e molesto per l’integrità della città ideale prospettata da Platone. Del resto, nell’ Atene della fine del IV secolo non c’è più posto per la poesia. L’universo politico della polis non ammette la possibilità di abbandonarsi al canto del poeta, come avveniva un tempo.

Bibliografia :

Diego Lanza, Trattato di estetica, a cura di  M.Dufrenne- D.Formaggio, Oscar Mondadori

Platone – Ione
http://garkonda.altervista.org/joomla/elettronica/elettrotecnica/22-varie/249-platone-ione

IONE
https://it.wikipedia.org/wiki/Ione_(dialogo)

http://www.filosofia.unimi.it/dipafilo/images/stories/docenti/bonazzi/gonzalez24_11_2010.pdf

Francisco Gonzalez-La follia dei poeti e la follia dei filosofi nello Ione e nel Fedro di Platone-Milano, 24 novembre 2010

PLATONE
CRITICA DELL’ARTE COME IMITAZIONE DELL’IMITAZIONE/ CRITICA DELLA TRAGEDIA
CRITICA DELLE ARTI IMITATIVE
(REPUBBLICA, LIBRO X, 595a – 608b)

Platone e la condanna della poesia http://www.liceoclassicodettori.edu.it/UserFiles/File/Utenti/Floris/PlatoArtePoes.pdf

La Libertà è il settimanale cattolico reggiano fondato da don Wilson Pignagnoli, su impulso del vescovo Beniamino Socche, il 19 ottobre 1952. Monsignor Pignagnoli ha diretto il periodico fino al 1975, quando gli è subentrato don Giancarlo Bellani, coadiuvato da don Gianni Crotti (la coppia si è a lungo firmata come “G&G”).

https://laliberta.info/2017/05/06/platone-e-la-condanna-della-poesia/

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