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Plastica, ascesa e caduta di un mito

A lungo simbolo positivo di progresso, la plastica è un classico esempio di come, nel giro di pochi decenni, si siano trasformati i valori del sentire comune. Dopo i primi tentativi di produrre oggetti con celluloide e bachelite, il grande impulso alla produzione di massa di beni in plastica parte dagli anni ’30 del secolo scorso, con l’utilizzo in scala industriale del petrolio come materia prima. Come spesso avviene, sono le finalità militari delle guerre mondiali a dare un determinante impulso allo sviluppo di una tecnologia: in questo caso la necessità di elaborare materiali sintetici che sostituissero quelli naturali, difficilmente reperibili. Negli anni ’50 c’è il vero e proprio boom della plastica, che entra nelle case di tutti sotto forma di prodotti di uso comune, che divengono icone di ottimismo e di benessere, non a caso vengono immortalati anche dalla Pop Art. Oggi quelle stesse qualità positive di solidità e resistenza dei prodotti in plastica si sono trasformate in una minaccia per l’ambiente.

“La plastica, alla cui scoperta l’Italia ha contribuito in maniera determinante con Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963 e fondatore dell’Istituto di ricerca in chimica macromolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche, ha svolto un ruolo fondamentale in settori chiave, come l’imballaggio alimentare e non, i trasporti, l’elettronica, le costruzioni”, spiega Mario Malinconico dell’Istituto per i polimeri, compositi e biomateriali (Ipcb) del Cnr. “Le materie plastiche sono ovunque e hanno rivoluzionato moltissimi aspetti della vita quotidiana, grazie alla loro versatilità. Si stima che se dovessimo sostituire la plastica con cui realizziamo contenitori rigidi e flessibili, imballaggi in film e in schiuma con i materiali tradizionali come vetro, metalli, legno, si avrebbe un costo ambientale ed energetico tra le quattro e le sette volte superiori.  Tuttavia, esse portano con sé un rischio: essendo materiali di sintesi prodotti in laboratorio, non si degradano in natura, dove non esistono enzimi in grado di ‘digerirli’. La loro massiccia dispersione negli ecosistemi, dovuta soprattutto al nostro smodato utilizzo di imballaggi con un ciclo di vita estremamente ridotto, determina un serio rischio per l’ambiente. Sottoposti all’azione degli agenti atmosferici, infatti, gli oggetti di plastica si dividono in parti sempre più piccole: è così che nascono le famigerate micro e nanoplastiche, la cui pervasività e dannosità sono ormai tristemente note”.

Le microplastiche e nanoplastiche costituiscono un pericolo non solo per mari e fiumi, su cui finora si era concentrata la ricerca, ma anche per la struttura dei terreni e per le possibili alterazioni che un accumulo potrebbe generare sulla capacità dei suoli di assimilare il carbonio. “È necessario sottolineare che il carbonio da cui si ottengono i polimeri, alla base delle materie plastiche, è un carbonio fossile, estratto dagli strati interni della Terra, il cui rilascio modifica il bilancio totale di carbonio presente in atmosfera. In questo senso, la plastica ha una funzione di ‘tampone’, poiché intrappola il carbonio di origine fossile in un materiale durevole. Se non venissero disperse nell’ambiente, le plastiche non creerebbero problemi di inquinamento”, conclude il ricercatore. “Intercettate con un efficiente circuito di raccolta differenziata, potrebbero essere riciclate più e più volte, prima di recuperarne il valore energetico. Oggi si stanno sviluppando anche processi di depolimerizzazione efficienti per riottenere le molecole costituenti e rifare i polimeri. Altra risposta della tecnologia è la cosiddetta bioplastica, ricavata da fonti rinnovabili, biodegradabile e compostabile, che si sta affermando nel settore dell’imballaggio ultrasottile e della raccolta della Forsu (Frazione organica del rifiuto solido urbano)”.

Edward Bartolucci [da L’Almanacco della Scienza CNR N. 2 – 27 gen 2021]

 

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