Di Salvatore Margarone
Quest’opera verdiana rappresenta il momento storico di transizione con cui Verdi si approccia all’opera wagneriana; ne è un chiaro esempio il suo inizio, il modo di musicarne i versi e l’invenzione della linea melodica, che qui diviene continua (come in Wagner) abbandonando, come subito dopo farà anche per Falstaff, i “pezzi chiusi” nella costruzione dell’opera, per proiettarsi ad un flusso continuo di musica e voce in un intreccio indissolubile, segnando così il momento della maturità verdiana pronta all’innovazione.
Tanti i personaggi all’interno di quest’opera sono diversi tra loro per carattere e per significati; tra questi, prima ancora che Otello e Jago, sicuramente spicca Desdemona, destinata come molte donne verdiane (per esempio Leonora o Violetta) a morire per amore: è vittima della società umana, che non accetta che il suo sentimento vada contro le convenzioni sociali. Come tutte le eroine verdiane è disposta al sacrificio non per masochismo né per senso del dovere, bensì perché crede in un amore assoluto, anzi, crede nell’assoluto, per il quale, nella visione pessimistica di Verdi, non c’è spazio in questo mondo. Il suo sacrificio è dunque allo stesso tempo una ribellione e un grido di dolore.
La vicenda umana di Otello, invece, ruota intorno a due poli opposti: Desdemona che rappresenta il Bene, e Jago, quello opposto, cioè il Male.
Tra Desdemona e Jago si viene così a creare un rapporto in netta contrapposizione, mancante sia nella novella italiana che nel dramma inglese, e che si esplica interamente nella musica. Verdi elimina a priori la possibilità che Bene e Male scendano a compromessi; sarà Otello a scegliere fra loro.
In questa produzione, purtroppo, la regia di Francesco Micheli, ripresa da Giorgia Guerra, e la scenografia di Edoardo Sanchi, non convincono pienamente, troppi gli squilibri che rileviamo. In primis le costellazioni: sono forse quelle che hanno guidato Otello durante le sue navigazioni?
Discutibile anche il finale dove, essendosi ormai consumata la tragedia dell’omicidio di Desdemona e il suicidio di Otello, i due si prendono per mano e insieme si dirigono verso la pace eterna.
Le luci, create da Fabio Barettin, che avrebbero dovuto avere maggiore rilevanza in una presenza di arredi così scarna, sono risultate piuttosto statiche e poco dinamiche, a differenza di come invece aiutarono l’immaginario del pubblico nella stessa scenografia allestita a Palazzo Ducale in Venezia, nel luglio 2013.
La partitura verdiana, nella direzione del Maestro Antonio Fogliani che ha guidato l’Orchestra del Filarmonico, è risultata intrisa del giusto sinfonismo che richiede quest’opera, ma decisamente eccessiva nelle sonorità, tanto da coprire interamente fin dall’inizio gli artisti del coro (diretti da Vito Lombardi) le cui voci non arrivavano in sala; forse il coro stesso doveva stare più avanti nel palcoscenico e non relegato in fondo al palco. Al contrario, troppa confusione nella parte corale più imponente dell’opera, “Fuoco di gioia”, che, immersa in una prevalenza di fredde luci bianche e blu, è risultata caotica e poco avvincente, specialmente nell’incongruente finale dove sono volati cuscini ovunque.
Per quanto riguarda le voci scelte per i ruoli, che in quest’opera necessitano di potenza oltre ad una incisività espressiva notevole, nella maggior parte sono risultate troppo esigue. Assenti infatti molti accenti verdiani che in Otello sono il cardine drammatico della vocalità.
In particolare, è mancata quella personalità subdola nel personaggio di Jago, affidato a Vladimir Stoyanov, il quale, con una dizione poco chiara ha portato in scena un carattere troppo delicato, rispetto a quel “male” di cui è impregnato tale personaggio. In molti momenti i suoi interventi non erano udibili in platea, e alcune parti che dovevano essere incisive e ricche di accenti sono risultate scialbe e con scarso nerbo.
La Desdemona di Monica Zanettin, pur dotata di una voce gradevole, ci è sembrata sforzata sugli acuti, spesso troppo vibranti; buono il centro, un po’ carente il grave. Lodevole, anche se non eccelsa, l’interpretazione dell’ Ave Maria.
Kristian Benedikt è stato Otello: avendo alle spalle numerose interpretazioni di questo ruolo (difficilissimo per un tenore) non ha deluso le aspettative, e, dimostrando una buona tecnica vocale e bel timbro, ha reso il carattere impetuoso del protagonista con sapiente utilizzo della voce, passando dal registro centrale a vertiginosi e improvvisi acuti senza apparente sforzo.
Il resto del cast si è difeso bene a partire da Cassio, Mert Süngü, Roderigo, Francesco Pittari, e ottima l’Emilia di Alessia Nadin, la quale, pur avendo una parte minore, ha dimostrato notevoli doti interpretative e sceniche che non sono passate inosservate; lo stesso dicasi per Lodovico, Romano Del Zovio, Montano, Nicolò Ceriani, Un araldo , Giovanni Bellavia.
Simpatica la prova sia vocale che scenica del bravo e disciplinatissimo Coro di Voci bianche A.LI.VE diretti da Paolo Facincani.
Nonostante tutto grandi applausi finali da parte del pubblico che ha ben gradito questo esordio di stagione, per un titolo che mancava in questo teatro da ben 30 anni.
Allestimento della Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con la Fondazione Arena di Verona.
Prossime recite il 6, 8 e 11 febbraio.
Foto ©Ennevi