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NORMA a Palermo

Recensione di Natalia Di Bartolo © dibartolocritic

I miti dell’opera devoro rimanere tali. Soprattuto se ancora in carriera. Ci sono miti come quello di Mariella Devia, che escono sempre vincenti da ogni sfida. Le qualità della sua voce, la limpidezza, la tecnica sopraffina, le capacità d’emissione e di proiezione sembrano essere rimaste intatte fino ad oggi. Oggi che il grande soprano ha superato da tempo le sessanta primavere. Dunque, sia lode a chi, come Mariella Devia, possedendo uno strumento unico, abbia saputo conservarlo con tanta perizia nel tempo.

È ovvio, però, che un segreto in questa longevità ci deve essere per forza. Lo strumento voce è delicatissimo e bisogna saperlo usare, fin dall’inizio. L’uso accorto e cosciente dei propri mezzi, la capacità di non forzare mai, di cantare sul fiato e non di fibra e molto, molto altro, che non si sta qui a sottolineare, aiutano a conservare nel tempo la freschezza di una voce. Ma quel che conta moltissimo è anche il repertorio. E infatti, nel caso della nostra diva, la capacità di non strafare, di contenere la qualità ed il numero dei ruoli affrontati in tutto l’arco della carriera, la prudenza, l’intelligenza vocale hanno vinto.

Ed ecco, dunque, da qualche anno, che Mariella Devia può permettersi di essere anche Norma. A Palermo, il 22 febbraio 2017 una grande Casta Diva ha risuonato tra i velluti storici del Teatro Massimo: un capolavoro. La finezza, gli attacchi, la delicatezza, le sfaccettature, la coscienza assoluta delle proprie capacità e dei propri limiti, hanno fatto della sua cavatina un gioiello di cui fregiarsi oggi e sempre.

Si parla della celeberrima Casta Diva, però. E Norma non è solo quella. Questo è un punto nodale: molti identificano Norma solo con questa cavatina al primo atto. Ma ci sono ore di canto, dopo Casta diva. E qui le cantanti hanno spesso vita difficile.

L’ascoltatore, però, spesso soggiace al fascino del personaggio ed alla sua fama e, nel caso di Casta Diva a Palermo, non rileva che, se il brano celeberrimo può aver suscitato corale entusiamo, ci sono stati momenti in cui tale entusiasmo ha corso il rischio di essere prossimo a spegnersi.

Perfino per una grandissima come la Devia, infatti, qualche ostacolo si frappone tra l’intenzione e la perfezione. Ci sono frasi musicali nella zona grave in questa parte che per determinate vocalità sono pressoché impossibili. La Devia le ha affrontate e superate esclusivamente con la tecnica.

Ora, se valga la pena di esporsi in un ruolo del genere facendo appello fino in fondo solo alle capacità tecniche è evidentemente un quesito a cui il celebre soprano stesso, con la propria performance palermitana, ha risposto. E certamente avrà tenuto conto come nell’insieme entrino in gioco altre componenti: la presenza di colleghi non adatti al ruolo, per esempio, può pregiudicare intere parti dell’opera.

Infatti sempre qui si cade, purtroppo, sull’inconsistenza della Adalgisa di Carmela Remigio, una sorta di contadinella svolazzante ed inespressiva, dalla vocalità discutibile, accanto ad una colonna del bel canto…Colonna che, però, a sua volta, nei duetti, avrebbe necessitato di avere a fianco ben altra colonna sopranile.

Non ci si può sottrarre, a questo punto, dal rilevare come sembrava a momenti di assistere non ai duetti Norma Adalgisa, ma ad inediti duetti Giulietta Capuleti-Amina. La Devia appoggiava la Remigio più vocalmente che scenicamente e la Remigio avrebbe avuto bisogno di entrambe gli appoggi; a sua volta non forniva alla Devia lo spunto per forzare un tantino in quel pathos un po’ violento, anche scenico, che è insito nel capolavoro belliniano e che la grande cantante a tratti non ha colto.

Ma dov’era la regia in questi momenti? Più che far avvolgere e svolgere lacci ad entrambe, i registi  Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi non hanno saputo fare. Una sorta di danza nel duetto.  Anche le dive vanno dirette in palcoscenico e non solo dal punto di vista “coreografico”.

Così come è accaduto che Norma, la quale in questa produzione si volge ad uccidere i figli soffocandoli con una fascia di stoffa, poi si trovasse, nella scena decima del secondo atto, in contraddizione diretta col Romani alla frase: “Non sai tu che ai figli in core/questo ferro…/(…) /Sì, sovr’essi alzai la punta…/Vedi… vedi… a che son giunta!…/Non ferii, ma tosto… adesso/ consumar poss’io l’eccesso…”. Quale ferro?

I registi hanno letto il libretto? O hanno pensato un po’ troppo ai riti ancestrali della Sardegna evocati da Maria Lai, con le sue fate ed i riti sciamanici ad esse collegati? Troppo insistito il tema di questi lacci, all’interno delle scene chiassose e volutamente “evento artistico” di Federica Parolini nel nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con Arena Sferisterio di Macerata, e i costumi apprezzabili di Daniela Cernigliaro. Il tutto sotto le luci suggestive di Luigi Biondi.

Onde per cui, se i registi non dirigevano a dovere la Devia, a maggior ragione ci si sarebbe aspettati che non dirigessero John Osborn, Pollione. E, invece, lo dirigevano anche troppo, facendo del proconsole di Roma nelle Gallie una specie di primate che s’arrampicava, che si volgeva all’amico Flavio, l’ottimo Manuel Pierattelli, con atteggiamenti da nonnismo, e che era costretto ad emettere i sovracuti, di cui è lodevolmente dotato, dall’alto di un trespolo di pali dalla dubbia connotazione, data l’assenza in scena sia della quercia druidica che dello scudo d’Irminsul.

Oroveso, Luca Tittoto, dalla vocalità tutta da valorizzare, gli altri interpreti, il Coro, diretto da Piero Monti, erano soggiogati dall’andazzo complessivo. Il Coro, nella fattispecie, a volte ridotto a movenze primitive, era pure costretto a dare fondo alle proprie capacità vocali di legato/portamento, fatto salvo, per fortuna, almeno il celeberrimo “Guerra, Guerra!”.

Su tutti, infatti, imperava il M° Gabriele Ferro e l’ottima orchestra del teatro palermitano era costretta a tempi di tale lentezza, che lo stesso mito d’oltreoceano negli anni ’70 del secolo scorso forse non avrebbe osato raggiungere per favorire le coniugali corde.

E se i tempi si ritrovavano ad essere stirati fino allo sfinimento come i lacci sulla scena, le dinamiche erano uniformate ad una triste piattezza in sordina, certamente messa in atto anche per non coprire il palcoscenico: il Maestro Ferro aveva per giunta fatto sopraelevare il fondo del golfo mistico, facendo emergere l’orchestra a livello poco più basso del palcoscenico.

Il risultato di tutto ciò, è apparso anche come l’impensabile ricerca complessiva di un lirismo belliniano che in quest’opera non esiste. Quel lirismo, invece, che caratterizza proprio altre opere di Bellini in cui la Devia è stata eccelsa in ogni senso e che inevitabilmente tendeva ad emergere anche nel canto di Norma. Dunque?

Dunque l’evento Devia a Palermo sembra aver sovrastato l’evento Norma. È impensabile che il M° Ferro non abbia agito appositamente ed a ragion veduta in un intervento agogico così pregnante e vistoso.

E allora, per concludere, visto che a volte anche l’Universale è ridotto a piegarsi al contingente, si spera che Bellini, al momento, almeno a tratti, fosse distratto da altri angelici canti, lassù, dall’alto di quel dell’Empireo dove si trova assiso.

Natalia Di Bartolo © dibartolocritic

PHOTOS © Franco Lannino, © Rosellina Garbo

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