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Le arance del “Mito” e della “vergogna”

Una storia che porta in essere tutto il disagio sociale della nostra Sicilia, nello specifico la mortificazione del territorio, la coatta imposizione di un sistema criminoso nella gestione dei rifiuti. Ed ovviamente “A tavola”, le arance nello specifico, presenti sulla tavola dei siciliani dal primo secolo a.C. Quelle dolci, maliziose, sanguinelle, etnee.

Quando si parla di tavola, si parla di cultura, di tradizione, di antropologia del territorio. Di migliaia di razze e popoli differenti. Ma questo non accade in tutti i posti del mondo, avviene dove il tempo sembra non essere scandito, dove la mitologia si coniuga con la saggezza popolare. Dove la fatica degli uomini, il sudore del lavoro, l’odore della terra, lasciano spazio al profumo di eterno, di mistico, di arance, olive e zagara: questa è Catania, questa è la Sicilia. Ma nella Valle dei “Sieli” di Motta Sant’Anastasia, a ridosso della Piana di Catania, nel cuore del Parco Archeologico del “Simeto”, una Discarica criminosa, la più grande dell’intera isola, rischia di contaminare ed uccidere per sempre, ciò che Dio ha dato in dono all’uomo.

Una Valle, quella dei “Sieli”, che nel periodo classico si riteneva fosse custodita da Encelado, un mostro mitologico dormiente sotto le colline. Ed ancora, se non ultima, dimora di Efesto, dio del fuoco, della tecnologia, della laboriosità, della “madre” Etna. Quella stessa visceralità magmatica che irrobustisce gli alberi, che riempie di fuoco le arance, che da millenni benedice il popolo catanese e mottese. Motta, appunto. Un paese di dodicimila anime, con un dongione Normanno testimone della sua storia medievale, della Regina Bianca di Navarra, di Re Martino, della prigionia di Bernardo Cabrera.

Sangue rosso, sangue blu… Ma ancora rosso… Sempre come quelle arance, succose, attraenti ma garbate, signorili e genuine. Sangue rosso… Metaforicamente uscito da questa valle, colpita al cuore dai cumuli d’immondizia che gente senza scrupoli continua a versare in questo sito al centro d’ indagini per reati mafiosi. Ma di quel mafioso senza coppola, senza lupara, senza baffi. Solo cariche istituzionali, macchinoni, viaggi di lusso, escort, clientelismo… ed arance; appunto. Arancia piena, piena di tutto. Piena di collera, di paranoia, di paura. Paura che un domani non sia più possibile. Perché i miasmi di un mostro ecoambientale sono più sopportabili del profumo di arancio, zagara e cipresso. Perché i soldi, da che mondo e mondo, hanno sempre imposto il loro credo su tutto. Come sulla dignità delle persone, sul lavoro dei nostri braccianti. Appiedati dalla “mala”. Appiedati perché più scomodi e costosi di tanti poveri “schiavi” venuti dalle terre di morte africane.

 Morte, sangue, rosso; ancora arance… Arance della storia, della terra degli “dei” e per gli “dei”… Arance mottesi, fetide, sanguinelle… Ancora sangue; ancora arance. A pensarci bene, dell’arancia non si può fare un uso così spiccatamente poliedrico: o la mangi, o la spremi,o la utilizzi per l’agrodolce. Diciamo che va con tutti e la vogliono tutti, perché è buona al gusto, bella alla vista e gradevole all’olfatto, ma al contempo non è mai la portata principale. Insomma, come la centralità di Catania nel “sistema” Italia. Come un’arancia. Come una puttana, che odi ed ami allo stesso tempo. “Io sono diventato profondamente catanese, i miei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana. Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell’amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso “al diavolo, zoccola!”, ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l’animo di oscurità. (da “I Siciliani”, Giuseppe Fava, 1980)

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