La Traviata di Giuseppe Verdi è un’opera molto popolare, ma è soprattutto un capolavoro. Non la si può e non la si deve mai sminuire quale Opera “di repertorio”. Eppure pare che ciò accada spesso…Quindi, forse per cercare di evitare la ripetitività di brindisi sontuosi e balli di zeffirelliana memoria, c’è chi pensa a variazioni sul tema.
La messa in scena dell’opera, proveniente dal Teatro Regio di Torino, in coproduzione con il Santa Fe Opera Festival, con la regia di Laurent Pelly, ripresa da Anna Maria Bruzzese, e le scene di Chantal Thomas è stata segnata da questa sorte, a dire il vero poco felice.
Ma la freddezza della direzione monocorde del M° Matteo Beltrami, alla guida dell’ottima Orchestra del Teatro Massimo, l’ha penalizzata e costretta ad un’esibizione che avrebbe potuto essere più coinvolgente, costringendola anche a tempi galoppanti. Nonostante tutto, il personaggio di Violetta è venuto fuori, grazie alla sensibilità personale dell’artista, che ha dimostrato le capacità sempre crescenti di una voce che si volgerà quanto prima a debuttare ne Il Trovatore, certamente assestandosi in ruoli decisamente più robusti e consoni alla propria natura ed alle proprie corde interpretative.
Poco espressivo il Germont padre di Devid Cecconi, incolori e quasi inascoltati gli altri interpreti.
Penalizzato pure il Coro, diretto da Piero Monti, costretto dalla regia anche a movenze farraginose e talvolta assai poco eleganti, che non facevano altro che creare confusione, senza lasciar capire debitamente lo snodarsi dell’azione.
Una notazione senza commento ai vocalizzi di matrice registica della valente danzatrice del Corpo di Ballo del Teatro Massimo nel brano delle zingarelle, su coreografia ripresa da Giancarlo Stiscia.
Assolutamente inspiegabile la divisione in due atti, con il preludio al terzo atto a sipario aperto ed interpreti in scena, coro a coprire la vestizione-svestizione di Violetta, che, finalmente rimasta sul proprio letto, al momento di morire, pur se lasciata inspiegabilmente sola dai suoi “più cari al mondo”, ha dato vita a se stessa, con la caparbia volontà di esistere: vocalmente buona la Schillaci nel finale.
Inutile sottolineare ancora l'”originalita” delle scene della Thomas, aggiungendo un’ultima notazione, purtroppo negativa, anche sui costumi dello stesso regista Pelly, variegati nelle fogge e negli stili, in cui era irriconoscibile una collocazione temporale ed a cui le luci, non sempre ben calibrate, di Amerigo Anfossi non davano particolare risalto.
Insomma: quand’è che torniamo a Violetta Valery in crinoline, fra bicchieri di cristallo e dorate suppellettili? Anche il canto, forse, ne verrebbe esaltato.