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LA SCOMPARSA DEI RITI. E TU A QUALI RITI ADERISCI?

Archetipo

Se domandassi a chi passa per la strada, “Cos’è per te un rito?”, davvero non so cosa mi risponderebbe. Qualche giorno fa, ho letto, come di consueto, un interessante articolo intervista a Byung-Chul Han, filosofo e docente sudcoreano che vive in Germania. Chul Han ha scritto un saggio: “La scomparsa dei riti”- editore Saggi Figure Nottetempo. In sintesi il filoso sostiene che il rito, come atto ripetitivo rassicurante, ha in sé una forte carica simbolica che rimanda al Mito. L’atto ripetitivo, per l’appunto il rito, non conterrebbe in sé un rimando nostalgico al passato, quanto piuttosto sarebbe “una cartina di tornasole per leggere, capire, interpretare il presente”.

Quale presente? L’era del non rito, o forse del rito ‘usa e getta’, svuotato del suo valore simbolico, dove non trova cittadinanza neppure più la visione − e la nominazione − circolare vita-morte nei suoi aspetti rituali.

A me ora interessa andare alla questione del simbolo e del mito. Leggo: ”La parola ‘simbolo’ deriva dal greco ‘symballo’ che significa: congiungo, metto insieme, unisco, mi metto in relazione con.., ma anche: paragono, confronto, interpreto, spiego”. Attraverso il simbolo, la mente reperisce cose, suoni, ritrova un mondo inesprimibile – il non detto -, antichi significati, condivisi in una memoria collettiva che altro non è che il patrimonio psicologico dell’umanità, costituito da archetipi, ‘forme a priori’ dell’immaginazione che ci permette di ‘vedere’ come le cose avrebbero potuto essere, o come potrebbe essere il futuro. Insomma, il simbolo agisce da conduttore tra spazi che hanno una carica di sacralità, di vitalità, razionale e psichica, di epoche passate e il nostro presente. Per Jung il simbolo come archetipo è “Il vero motore della vita psichica”, ciò significa che la psiche è costituita da tutto un sistema di simboli che trasforma l’eccedenza della carica delle pulsioni “fondamentali” dell’individuo, in forme incanalate di sapere. Ma cos’ha a che fare il rito-simbolo con il Mito? Nel Mito troviamo l’esigenza degli uomini di dare risposte a fenomeni naturali, a domande relative all’esistenza umana e del cosmo. Il rito, nel passato, era l’azione gestuale, fonica, ripetitiva che dava voce al Mito. Sappiamo che nel mondo antico esistevano riti connessi a feste agresti e pubbliche, essi erano raffigurati attraverso la pittura. la scultura, sulle pareti di templi o delle case, “su vasi, sigilli, tazze, cofani, scudi, tappezzerie”. Il rito era garanzia, promessa di fertilità della terra, di benessere dei regni. Essi assumevano un’importanza sacrale, proprio per il loro carattere di adesione psichica e rituale collettiva.

Simbolo rituale ‘rito e mito’, il dono che crea legami

Mi chiedo se nella nostra era esistano ancora i riti. Forse sì ma svuotati del loro contenuto. Viviamo in una società iperattiva, in cui ci sentiamo continuamente considerati solo se produciamo, se siamo, se agiamo, se ci mettiamo in evidenza con prestazioni, prove, risultati, di diverso tipo. Inoltre, per il raggiungimento di tale fine, alcuni tra noi spesso amano “sbandierare” al pubblico i propri successi, attraverso le comode vetrine offerte dalla rete. Queste ultime, gestibili da casa, sono connotate da finzione; nel contesto di un debole reale confronto di opinioni e di idee, le parole annegano, prive di rimandi a contenuti profondi, i simboli appunto. Così il popolo di internet si elegge a imprenditore di un agognato regno, costruito, però, su fondamenta di argilla che al primo colpo di vento crolla miseramente. Il filosofo sudcoreano, circa il carattere obsoleto del rito, afferma che “Il vecchio, ciò che è stato che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione”.

Archetipo e immaginazione.

E a proposito di parola, come possibile via di trasmissione di pensiero dialogato, dice Byung-Chul Han che viviamo una comunicazione senza comunità, esattamente il contrario di ciò che era un tempo (quale?), in cui si viveva in una comunità senza comunicazione. Ci si potrà obiettare che i riti sono cose, appunto, antiquate che andavano bene un tempo, che riammetterli sarebbe come mettersi addosso una camicia di forza, che sono a servizio del potere dei più forti che così meglio possono dominarci. Ma anche questo pensiero, sciolto in atteggiamenti antitetici al rito, fa cadere nella trappola del rito “Non rito”, quale assunzione “per forza” di comportamenti anarchici, destinati al naufragio.

Ripercorrendo il pensiero del filosofo, soffermo la mente ancora sul rito come scomparsa di qualcosa, sulla sua diffusione formale, dove il valore sociale del rito, il suo rimando simbolico, la sua efficacia, la sua moltiplicazione, attraverso espressioni molteplici, è attualmente deprivato di contenuti valoriali. Tutto appiattisce perché alla mercè della “produzione e del consumo”, poiché perde di riferimento per l’intera collettività, non rispondendo più ai bisogni, alle istanze di una comunità. I riti, così, come sostiene il filosofo, diventano mere occasioni celebrative; ad esempio, nel caso delle feste prima e dopo la laurea, essi finiscono per ridursi alle sole celebrazioni per il conseguimento di un’attestazione scritta su carta, dopo un percorso di studio terminato, più o meno brillantemente. Attestazione che apre, per molti giovani, anziché al mondo del lavoro, a un nulla prolungato. Oppure, dico io, nel caso di feste di compleanno, occasione di ritrovo tra amici, dove lo spazio aggregante si trasforma in organizzazione di atolli individuali in cui gli invitati si isolano con il tablet per altri possibili “ritrovi”.

Scomparsa del rito.

Mi piace terminare questa lunga riflessione portando due espressioni antitetiche del rito. La prima riguarda una personale interpretazione del rito non rito in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”. Aex, illuso e deluso protagonista della storia, si ribella al perbenismo della società, assumendo anche comportamenti esageratamente da anticonformista.

La seconda immagine, questa volta del rito-simbolo, risiede per me nel dialogo tra il piccolo principe e la volpe (da Il Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, capitolo XXI)

“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”
“Sono una volpe”, disse la volpe.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono cosi’ triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?”
“Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?”
“Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe.
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?…È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo””

Ecco, creare legami è un lavoro paziente. Richiede il recupero del rito che ci permette di riconoscere noi stessi, di scoprire e capire avvicinarci al mistero dell’altro.

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